“Dottore, buongiorno, sono cinquantotto giorni che non ho un attacco di panico”
Sarebbero bastate queste poco più di dieci parole, quasi da incontro degli alcolisti anonimi, a farmi capire che Marcello aveva una personalità ossessiva; ma lo sapevo già da tempo, oramai, vale a dire dal nostro primo incontro. Come sapevo che era stato cintura nera di attacchi di panico, disciplina praticata a livello agonistico.
Stava oramai bene da un po’, ma non poteva fare a meno di calcolare gli intervalli liberi dagli attacchi azzerando il conto ogni volta, tra una visita e l’altra. In qualche maniera questo tempo più piccolo doveva essergli utile a controllare meglio la sua ansia, ed io glielo lasciavo fare perché, in fondo, era un modo come un altro per adattarsi alla vita.
Non è il primo amore che non si scorda mai (quello si dimentica e si modifica, credetemi), ma è il primo attacco di panico a rimanere indelebile nella memoria. Del resto, si ha l’impressione di morire: come potremmo mai dimenticarlo? Non è un caso che Marcello, come tutti gli altri, si fosse rivolto al pronto soccorso, ed al cardiologo di fiducia il giorno dopo, non essendo rimasto sodisfatto. Come puoi credere che la mente ti inganni a tal punto da diventare una malattia del corpo? Sorrido sempre ogniqualvolta mi si presenta questo dualismo mente-corpo o, più poeticamente, quello mente-cuore: sorrido perché non posso fare a meno di chiedermi, e chiedere al mio interlocutore a mia volta, dove si crede che il cervello, e la mente di poi, risiedano, nella convinzione sia quasi una entità estranea che fluttua da qualche parte, troppo rarefatta o troppo nobile per mischiarsi a questo groviglio plebeo di cavi, tubi, carne e sangue. No, signori cari: il cervello è corpo, rassegnatevi.
Un ossessivo non dovrebbe mai soffrire di attacchi di panico, anche se ne è in qualche maniera predisposto, perché si fa una fatica doppia a farlo stare meglio. Come il più attento dei direttori di orchestra, annoterà ogni minimo sussulto delle sue vene, ogni fruscio, ogni contrazione infinitesima dei suoi muscoli per registrarlo come un pericolo imminente, se ancora inesperto, o come un pericolo scampato, se oramai di lunga esperienza nel disturbo. Del resto, come dargli torto? L’ansia, ed il panico che è il suo braccio armato, il suo corpo militare d’élite, può simulare qualunque disturbo, e lo fa con l’abilità di un grande attore, che sa che non deve riprodurre la realtà vera ma la verosimiglianza: deve rappresentare ciò a cui si crede, in parole povere, non ciò che è. Il panico, quindi, diventa i sintomi che nell’immaginario comune deve avere un infarto: è l’idea dell’infarto, non la sua descrizione scientifica. Quest’ultima, poi, sarà cercata il prima possibile dal malcapitato, alla ricerca di quella spiegazione che i medici interpellati non sono riusciti a fornirgli per superficialità o incompetenza; e vi ritroverà tutto, ma proprio tutto ciò che lui ha provato, è ovvio. Non vi meravigli: l’ansia è una grande imbrogliona, e la sofferenza fa diventare sfiduciati e sospettosi.
Marcello non faceva eccezione, rivolgendosi ad ogni specialista esistente, non ultimo un ginecologo nella speranza si trattasse di una autodiagnosticata gravidanza extrauterina. Quando giunse da me, lo fece con l’atteggiamento di un collega d’esperienza.
“Chiedo scusa, non mi pare di ricordarmi di te. Eravamo forse compagni di corso?”, rimase interdetto, anche se forse lusingato sulle prime, pensando si trattasse di un complimento. “No, non lo eravamo, te lo dico io, e neppure di specializzazione perché tu non sei specialista in nulla, oltre che nella tua sofferenza. Non stiamo facendo un consulto, ti stai sottoponendo alla mia valutazione. Non sei in grado di capire cosa hai non soltanto per mancanza di competenze, cosa ovvia, ma soprattutto per mancanza di lucidità: anche qualora fossi un collega, uno psichiatra, intendo, non potresti fare nulla per te steso. Uno psichiatra che si cura da solo ha un idiota per paziente”.
Lo brutalizzai, me ne rendo conto, ma era necessario. Era riuscito a far fallire cinque tentativi terapeutici prima del mio, tutti più o meno sensati per quello che può essere il mio giudizio. L’errore dei colleghi, forse, era stato quello di provare ad assecondarlo per fargli accettare la terapia, finendo per andare inevitabilmente nel senso del sintomo: il controllo.
“La terapia è questa, e va fatta così: non di meno, non di più, non in tempi diversi. Potresti anche continuare a stare male per le prime settimane, perché ci sono dei tempi tecnici da rispettare. Non meglio, non peggio: uguale, al netto della tua paura di assumere un farmaco, ovviamente. Poi, quando i tempi saranno maturi, sarà come un interruttore, e ti sentirai meglio. Di lì in poi, la strada sarà in discesa. Da quel momento, quando sarai cioè più sereno, dovrai cominciare a lavorare seriamente su te stesso, per imparare a gestire il panico, che è come dire imparare a gestire la vita”.
“Dottore, ma se…”
“Marcello, nessuno è mai morto per un attacco di panico, rassegnati”. Sono certo che sarebbe morto, se avesse potuto, per il solo gusto di smentirmi.
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