Don Tonino Palmese, teologo e già presidente della Fondazione Polis, già responsabile di Libera in Campania, è il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Napoli. Lo ha nominato il sindaco Gaetano Manfredi, a seguito di un avviso pubblico. E' oggi a stretto contatto con i detenuti e di loro racconta in questa intervista il dramma, ma anche la spirituale voglia di riscatto.
Don Tonino Palmese, la condizione della popolazione carceraria campana è in difficoltà. Da prete, prima che da garante, di cosa hanno bisogno i detenuti?
Ringrazio per la vostra attenzione e mi piace essere sollecitato da una domanda che mi induce a dire subito che, grazie al Vangelo, prete e garante coincidono nell'incontro con il detenuto. La condizione carceraria è la condizione che "assume" Dio incarnandosi fino a identificarsi. Fondamentalmente un detenuto ha bisogno di uno Stato e dunque di una società che lo riconosca sempre e comunque come persona umana, dunque portatore di dignità. Il riconoscimento dell'altro è il punto di partenza.
Altro tema è il supporto psicologico e spirituale. Il carcere, quando anche sia una misura punitiva, crea le condizioni per lo sviluppo di malattie psichiatriche importanti. Su questo fronte, perché non siamo preparati?
Non siamo preparati perché non si assume abbastanza personale specializzato. il volontariato e la dimensione spirituale sono una risorsa straordinaria per umanizzare ed elevare la condizione di chi vive nella "caduta". Inoltre il volontariato diventa sempre più una vocazione ed una missione per credenti e non.
Cosa trova dentro le anime di queste persone?
Nella gran parte delle persone che incontro trovo il dramma dell'errore. Sono pochissimi quelli che appaiono "spavaldi" nel ricordare ciò che hanno commesso. Sono anni che pur accompagnandomi al mondo dei familiari delle vittime innocenti, ho constatato che anche tra i colpevoli c'è un'immensa storia di persone che da vittime "del sistema" sono poi diventati colpevoli. Ovviamente ciò non "assolve" come si farebbe con una spugna legislativa ma si deve attivare tutto il bene e il meglio possibile per riumanizzare la storia di ciascuno.
Ci racconta una storia che l’ha segnata profondamente nel corso del suo operato?
Guai se ci fosse una sola storia e guai se ce ne fosse una che merita più di tutte. Mi impressiona la storia di tutti coloro che con autenticità d'intenti aspirano ad una nuova chance. Mi impressiona quando sento dire che qualcosa di buono che ora sperimentano nella condizione carceraria se l'avessero "fatta" o ricevuta prima sarebbe stato provvidenziale per non sbagliare.
Lei ha affermato che il carcere è come un santuario, lì dentro si è prossimi a Dio. Cosa intendeva dire?
Quando dico che il carcere è come un santuario, intendo dire che dove vive l'uomo e l'uomo che soffre (anche per sua responsabilità) lì c'è Dio. Per un credente vuol dire che quello spazio ma soprattutto quel tempo donato e condiviso diventa sacro, perché sacra è la vita. Mi convince infatti la possibilità di eliminare dalle nostre categorie culturali il concetto "nient'altro che" sostituendolo sempre con il "tutt'altro che".
La fede in Cristo talvolta riabilita queste persone? Ne è testimone?
La fede se diventa anestetizzante, alla lunga delude e dispera. La fede per noi cristiani è un vero e proprio incontro con Dio che assume le tue sembianze e ti ricorda che nessuno è solo ciò che ha fatto e che il nostro destino consiste nel ritornare ad essere umani (questo vale per tutti reclusi e liberi). Spesso in carcere si ha la possibilità di purificare una certa immagine di Dio che abbiamo fatto conciliare con la possibilità di convivere con il crimine.
Esistono gli ingredienti oggi affinché un detenuto, una volta scontata la sua pena, possa riscattarsi umanamente e civilmente?
Il futuro di una persona privata della libertà lo si prepara nel presente. Non è pensabile la pena si possa "soddisfare" solo con il carcere e se questo fosse necessario anche il carcere deve "ospitare" tutte le iniziative possibili per alimentare la qualifica al lavoro, l'approfondimento con lo studio, la conoscenza delle persone che si "adottano" nel cammino verso la "liberazione". Se nel carcere tutto ciò con avviene si consegna nuovamente la "patente del crimine".
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