Ci sono uomini che, con la loro sola presenza, hanno cambiato l'atmosfera del luogo in cui si trovavano. Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era uno di questi: autorevolezza, competenza, carisma lo avevano reso tra gli uomini più apprezzati di tutte le forze armate. Il Generale conosceva la Sicilia, c'era già stato due volte: da Capitano nel 1949 a Corleone, svolgendo le indagini sull'omicidio di Placido Rizzotto, e da Colonnello a partire dal 1966, al comando della Legione di Palermo, che aveva giurisdizione anche sulle province di Agrigento, Caltanissetta e Trapani, imparando a conoscere anche i mafiosi e le loro connessioni con la politica, prima di dedicarsi con tutta la sua intelligenza e le sue capacità alla criminalità milanese prima e alla lotta al terrorismo poi.
Per i cittadini onesti di Palermo, martoriata e impaurita da almeno tre anni per il feroce attacco a rappresentanti delle istituzioni e per le centinaia di omicidi della guerra di mafia, che avevano inondato le strade di sangue, il suo arrivo costituiva un punto di riferimento autorevole e capace di infondere sicurezza, fiducia e speranza.
Proprio la conoscenza della complessità del fenomeno mafioso e la sua connessione con l'inestricabile intreccio di interessi politico-economici provocavano nel neoprefetto, da un lato, la giusta analisi di assolute carenze nel fronteggiare la criminalità mafiosa e, dall'altro, la piena consapevolezza che l'adempimento del suo dovere lo avrebbe inevitabilmente indotto a scontrarsi con potenti settori politici, che proprio dagli ambienti mafiosi attingevano larghe quote di consenso elettorale.
Precise tracce di questo travaglio interiore emergono dal suo diario alla data del 30 aprile 1982, giorno in cui viene assassinato l'onorevole Pio La Torre e il generale da Roma, viene catapultato a Palermo per assumere l'incarico di prefetto in anticipo rispetto ai tempi previsti: "Mi sono trovato, da un lato, una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l'ossigeno della sua stima e attende i miracoli e, dall'altro, un ambiente, che va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo, pronto a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno toccati o compressi, pronto a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente deriveranno e anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare...".
Sono certo che i nostri stessi sentimenti di rabbia, di sdegno, di commozione, ma anche di sgomento e di impotenza di fronte all'arrogante violenza mafiosa, ispirarono l'ignoto autore del cartello lasciato sul luogo dell'eccidio: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Il 4 settembre 1982, dal pulpito della chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini politici siciliani e d'Italia, che assistevano nelle prime file alla messa funebre del prefetto Dalla Chiesa, citando la nota frase tratta dalle Storie di Tito Livio: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur; mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?»
A seguito delle sferzanti accuse, dal fondo della chiesa, dove sedeva la gente comune, esplose un fragoroso applauso. Un urlo liberatorio, un grido di condanna diretto allo Stato. Il monito era rivolto alla classe politica italiana che, indugiando a concedere al generale Dalla Chiesa i poteri speciali che aveva richiesto, l'aveva lasciato in una situazione di incertezza dalla quale non era uscito vivo.
L'omicidio Dalla Chiesa non fu un buon affare per Cosa nostra. Questa valutazione negativa è emersa anche successivamente , al punto da chiedersi ancora oggi quali interessi così importanti avesse potuto toccare il prefetto Dalla Chiesa in soli cento giorni da deliberarne l'eliminazione fisica o, di converso, per le finalità di quale potere occulto esterno abbia operato la mafia
.In pochi giorni venne approvata, dopo anni di attesa, la legge Rognoni-La Torre, che aveva resistito all'omicidio dello stesso La Torre, introducendo l'associazione mafiosa, i controlli bancari sugli enti pubblici e gli appalti, il sequestro e la confisca dei beni.
Non solo, quei poteri di coordinamento investigativo sul piano nazionale che egli aveva, ripetutamente e invano, sollecitato sin dal primo momento, e che al di là delle promesse formali e delle dichiarazioni di intenti non gli erano stati concessi, vennero dati al suo successore tramite un Decreto legge, ampliandoli addirittura su tutto il territorio nazionale, anche in materia di camorra e di 'ndrangheta.
Le straordinarie qualità del Generale Dalla Chiesa, unite alla memoria dei segreti di Stato del terrorismo, possono ben aver costituito un'incontrollabile miscela esplosiva, rappresentata da un uomo che non si è mai asservito alla politica e che sul fronte della mafia stava rivelando di averne compreso le evoluzioni. Un uomo che, sfruttando i rapporti con la stampa e l'opinione pubblica, parlando alla gente, andando nelle scuole, orientando le coscienze, stava innescando una rivoluzione che rischiava di spezzare l'egemonia sub-culturale della mafia e del sistema di potere ad essa collegato.
Il valore della vita, del sacrificio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e, con lui, di Emanuela e di Russo, rimarrà nella memoria collettiva, non si potrà mai disperdere.
È stato proprio lui a liberarci dalla minaccia eversiva; è stato proprio lui a tracciare, con la sua esperienza, con la sua alta professionalità le direttrici investigative, organizzative e metodologiche della moderna lotta contro la mafia.
Di fronte all'uccisione di un servitore dello Stato come il prefetto Dalla Chiesa, accanto alla responsabilità penale di autori e mandanti, vi è anche la responsabilità morale di chi non l'ha ascoltato o l'ha privato dei mezzi per garantire libertà e democrazia, legalità e giustizia. Come disse il Generale pochi giorni prima di essere ucciso a suo figlio Nando: "Certe cose si fanno per poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa".
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