Nanni Moretti è semplicemente Nanni Moretti, lo si può amare o odiare. I suoi film possono piacere o infastidire, essere visti come metafora della vita o come semplici narrazioni con incursioni nella politica, ma di certo tutte le volte che si affaccia al mondo con un nuovo lavoro è difficile ignorarlo; è quasi impossibile rimanere indifferenti. Perché Nanni Moretti, le sue narrazioni –letteralmente–, le carica di spunti di riflessione a lunga conservazione, capaci di ritornare alla mente dello spettatore anche giorni dopo che questi è uscito dalla sala di proiezione.
Sono messaggi sapientemente confezionati dietro ogni inquadratura, ogni scena, ogni dialogo, soppesando perfino le singole parole, i singoli silenzi, i singoli sguardi del maestro che davanti alla macchina da presa con la sua mimica scarna, ma essenziale e risolutiva si mostra come il tratto di penna rossa sul quaderno di uno scolaro a cui è necessario spiegare quando e dove il suo libero arbitrio diventa errore.
É la potenza dirompente della narrazione attraverso il cinema; il racconto per immagini, dove i colori, le forme, le musiche, i toni della voce dei singoli personaggi e il loro stesso movimento negli spazi tra gli oggetti di scena sapientemente collocati sotto l’occhio oggettivo della macchina da presa, creano una plausibile alternativa ad un mondo che ha deciso – nella realtà – di prendere una strada diversa.
Così racconta con forza Nanni Moretti nel suo ultimo film “Il sol dell’avvenire” dove mette in risalto le nostalgie, le scelte, la possibile fine o le speranze di rinascita di una comunità che gravita intorno ad una sezione del Partito Comunista del Quarticciolo. Ma, più in generale anche di un partito travagliato, picconato dai cambiamenti politici, sociali ed economici degli ultimi venti anni e che, un manipolo di irriducibili sostenitori, forse nostalgici, si rifiuta di consegnare alla memoria storica.
Senza dubbio quello di Moretti è un film politico, ma non di propaganda anzi al contrario una profonda critica verso la deriva delle aspettative di chi sulle idee marxiste aveva creduto di poter contribuire alla realizzazione di una vita terrena più giusta per tutti, più equa, dimenticando, forse, che è proprio l’iniquità continua a stimolare lotte e cambiamenti. Un racconto, da un punto di vista tecnico, sublime quello di Nanni Moretti che non tradisce il ruolo di sé stesso nella figura di un regista combattuto tra l’improvvisa separazione dalla moglie e le difficoltà finanziarie per continuare a girare il suo film sulla sezione del partito di quartiere.
Una sezione capitanata da uno straordinario Silvio Orlando nel ruolo di una figura di spicco dell’Unità e che medita di farla finita perché incapace d’accettare i cambiamenti di un mondo che avanza in direzione contraria a tutte le sue aspettative e ai suoi valori d’uomo d’altri tempi.
Un film raccontato sulla scia pirandelliana del teatro nel teatro, dove lo spettatore al cinema segue i dubbi, le perplessità di Giovanni regista impegnato nella sua creazione artistica per condannare le violenze staliniste e l’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest nel 56, oltre alle vicende degli attori ingaggiati da Giovanni stesso che per continuare le riprese del suo film che, per essere completato, dovrà bussare alle porte dei finanziatori per accettare, infine, i fondi offerti da un gruppo di giovani rampanti capitalisti coreani.
Quasi l’immagine metaforica del compromesso, dello sguardo inevitabile all’apertura al nuovo in un mondo in continua trasformazione, dove la tolleranza e la condanna dei propri errori possono garantire la continuità e la voglia di sfilare tutti insieme, senza per questo dover rinunciare ai propri singoli sogni.
di Mario Volpe
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