Inflazione, caro bollette, calo del potere d’acquisto dei salari. E mancanza di alloggi a prezzo accessibile. Sono questi gli ingredienti dell’emergenza abitativa che si sta verificando oggi in Italia: sono sempre di più le famiglie sotto la soglia di povertà, sotto sfratto o in attesa di una casa popolare. Negli ultimi anni, trovare un’abitazione in affitto è sempre più difficile: la domanda cresce mentre l’offerta fatica a tenere il passo, anche a causa dell’aumento degli affitti turistici e della finanziarizzazione del mercato immobiliare. Soprattutto nelle grandi città, i prezzi sono sempre più alti, spesso non giustificati dallo stato degli immobili. Nel frattempo, nel nostro paese manca ancora un piano casa strutturato, con politiche in grado di rispondere alle necessità delle persone e ai problemi dei centri storici.
Guardando i numeri, l’emergenza abitativa risulta ancora più evidente. Secondo un’analisi della società di intermediazione e servizi immobiliari specializzata sulle nuove residenze, Abitare Co, condotta nelle otto principali città italiane (Milano, Roma, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Palermo, Torino), per affittare un bilocale di 70 mq oggi si spendono in media 945 euro al mese, escluse le spese condominiali, anche se il prezzo varia molto in base alla zona: si parte da 580 euro nelle aree periferiche per arrivare a 1.070 euro in centro. Anche tra le città ci sono differenze marcate: ai primi posti troviamo Roma e Milano, con una media rispettivamente di 1.365 e 1.300 euro, mentre le città meno care sono Palermo (625 euro), Torino (715) e Genova (750).
Il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini qualche mese fa ha annunciato un nuovo piano casa, che dovrebbe coinvolgere Regioni, comuni ed enti locali.
Secondo gli ultimi dati Istat, 18,2 milioni di famiglie italiane (il 70,8% del totale) sono proprietarie della casa in cui vivono, mentre 5,2 milioni (20,5%) sono in affitto e 2,2 milioni (8,7%) hanno un’abitazione in usufrutto o a titolo gratuito. Chi paga un mutuo rappresenta il 12,8% (circa 3,3 milioni di famiglie). Fin dal dopoguerra, in Italia si è registrata una particolare propensione all’acquisto: la percentuale di persone che vivono in affitto o a titolo gratuito è molto inferiore alla media dei paesi europei, che si attesta al 30% secondo i più recenti dati Eurostat. L’affitto è più diffuso tra le famiglie meno abbienti: nel quinto di famiglie più povero, la percentuale di quelle in affitto è del 31,8%, mentre scende all’11,3% tra i nuclei più benestanti. A vivere in affitto sono soprattutto gli stranieri (in questo gruppo la percentuale sale al 68,5%), le persone sole con meno di 35 anni (47,8%) e le giovani coppie senza figli (39,9%).
In che condizioni abitative vivono queste famiglie? Un indicatore rilevante è il tasso di sovraffollamento, che indica la percentuale di nuclei che non dispongono di un numero di stanze adeguato alla loro composizione. In Italia, il tasso di sovraffollamento medio è del 20,2% (superiore rispetto alla media europea del 17,5%), e la percentuale sale al 35,6% per le famiglie in affitto. Un’altra questione da considerare sono le spese per l’abitazione (affitto o interessi passivi sul mutuo, ma anche bollette e condominio): le famiglie in affitto spendono mediamente 579 euro al mese, contro i 263 euro di quelle proprietarie. Questi costi rappresentano una parte significativa del bilancio familiare: le famiglie più povere spendono per la casa il 32,3% delle loro entrate, contro il 6,6% di quelle più abbienti.
In Italia le famiglie proprietarie sono spesso favorite anche dalle politiche: tra le ultime ad accendere il dibattito c’è stato il Superbonus 110%. Come gli altri bonus edilizi, infatti, anche questa misura ha finito per favorire le imprese edili e chi possiede una casa, dunque indirettamente le fasce più ricche della popolazione.
Il governo ha deciso di non rifinanziare il contributo all’affitto né il fondo per la morosità incolpevole, proprio perché intende favorire un nuovo “piano casa” che non sia a discapito dei conti pubblici.
Come è noto, il contributo all’affitto era stato introdotto nel 1998 dalla legge 431, con l’obiettivo di permettere a un’ampia fascia di popolazione di accedere alla casa attraverso una integrazione al canone di locazione.
Nel corso degli scorsi decenni, gli stanziamenti per il contributo all’affitto sono stati sempre discontinui e non legati alle reali necessità delle famiglie, ma piuttosto alle esigenze di spesa dei governi. Di anno in anno, si è assistito a una progressiva riduzione della somma erogata: dai 362 milioni di euro del 2000 si è passati ai 9 milioni del 2011, fino ad arrivare a un azzeramento completo nel 2012. Dal 2020, sulla spinta della crisi pandemica, il contributo all’affitto era tornato a livelli elevati, e nel 2022 si era arrivati a 300 milioni di euro: una cifra cospicua, anche se non sufficiente a soddisfare le necessità delle Regioni, che avevano chiesto 500 milioni.
Eppure su questi strumenti c’erano già opinioni discordanti: lo stesso sindacato degli inquilini li definisce “un regalo alla proprietà immobiliare, vista la portata finanziaria: circa 4 miliardi stanziati da quando è stato istituito il fondo per il contributo all'affitto che, se investiti in nuova edilizia pubblica, avrebbero dato risposte all’emergenza abitativa in modo strutturale, cioè creando almeno 90-100 mila nuovi alloggi pubblici”.
Oggi il patrimonio italiano conta circa 760mila alloggi di edilizia residenziale pubblica. Sono i dati della Federazione italiana per le case popolari e l’edilizia sociale (Federcasa): molti di questi però sono in vendita, anche se mancano i numeri esatti, non essendoci un Osservatorio che monitora la situazione delle case popolari sul territorio nazionale. Per Federcasa, però, servirebbero almeno 300 mila alloggi in più. “In Italia servono più case popolari e una nuova idea di edilizia residenziale pubblica”, afferma il presidente di Federcasa, Luca Talluri. “Al tempo stesso occorre investire risorse importanti sul piano periferie, per consentire una riqualificazione vera delle aree ad alta densità abitativa, in termine di vita di quartiere e di qualità dell’abitare, elementi che contraddistinguono la nostra quotidianità. […] La risposta a un disagio abitativo crescente ha inizio nella rigenerazione urbana delle periferie, attraverso la costruzione di nuove abitazioni e talvolta con la demolizione e la ricostruzione degli edifici esistenti”.
Dall’inizio del Novecento, lo Stato italiano ha direttamente finanziato la costruzione di alloggi pubblici: si è cominciato nel 1903 con la legge Luzzati, che ha istituito l’Istituto case popolari (ICP). Nel dopoguerra il piano INA-Casa (o piano Fanfani) ha dato avvio alla realizzazione di alloggi in nuovi quartieri, offrendo la possibilità a migliaia di famiglie di migliorare le proprie condizioni abitative. Nel 1962 la legge 167 ha introdotto i PEEP (Piani per l’edilizia economica e popolare), e l’anno successivo è nata la Gescal (acronimo di Gestione case per i lavoratori), un fondo destinato alla costruzione e assegnazione di case, subentrato al piano INA-Casa.
Negli anni Novanta si apre invece la stagione delle dismissioni degli alloggi popolari, con l’obiettivo di far entrare liquidità nelle casse dello stato e risanare così il debito pubblico: nel 1993 la legge 560 prevede piani di vendita fino al 75% del patrimonio abitativo pubblico. Nel 2014 la legge 80 (nota anche come Piano casa Renzi – Lupi) stabilisce un nuovo piano di dismissioni destinato a operare ad ampio raggio, anche in deroga alla legge del 1993. L’interesse si sposta gradualmente dall’ERP (edilizia residenziale pubblica) all’ERS (edilizia residenziale sociale o social housing): il ruolo dell’attore pubblico diventa quello di promuovere interventi “socialmente orientati” da parte di attori privati, attraverso incentivi e detrazioni fiscali; contemporaneamente, i privati sono sempre più coinvolti nella definizione delle politiche abitative.
Tra le cause dell’attuale crisi abitativa ci sono anche due fenomeni di dimensione globale, le cui ripercussioni colpiscono in primis le comunità locali: la turistificazione e la finanziarizzazione del mercato immobiliare. Con turistificazione si intende un processo che cambia il volto delle città e progressivamente favorisce l’ampliamento dell’economia turistica.
Parallelamente, il processo di finanziarizzazione del mercato immobiliare ha trasformato la casa in un asset finanziario come tanti altri, rendendola oggetto di compravendita in borsa come altri tipi di merce. “Il pericolo è che in questi processi, dove i grandi investitori hanno grandi expertise e grandi fondi, il pubblico non assuma il ruolo di guida e gli attori finanziari abbiano un impatto molto forte sulla governance del territorio, che potrebbe perdere di vista il bene comune”, ha spiegato l’esperta di mercato immobiliare, governance e politiche di sviluppo del territorio Veronica Conte, ricercatrice della Research Foundation Flanders in Belgio, a Irpi media. “I processi di finanziarizzazione portano infatti a una decontestualizzazione della pianificazione urbana, che risponde sempre più a bisogni globali e sempre meno alle necessità della comunità”.
di Giovanni Passariello
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