Trattativa Stato-mafia e la fine dei cultori del Male
Una giustizia, quella italiana, che sembra un pachiderma anchilosato. Un corpo molle che, anche difronte a un episodio di tale rilevanza, che ha compreso la suo interno i massimi rappresentati dello stato accusati di un vero e proprio comportamento eversivo, non riesce ad essere tempestiva nel dare le risposte che il paese attende e merita.

La Corte di Cassazione, dopo quasi dieci anni di processo e a quindici dall’inizio delle indagini, ha posto fine alla vicenda giudiziaria cosiddetta della “trattativa stato – mafia”, che vedeva imputati altri rappresentanti dello stato accanto a mafiosi di primo livello.
In breve, ed aspettando le motivazioni della sentenza per capire quale sia stato il ragionamento seguito dai giudici supremi, per ora possiamo dire che non ci fu nessuna trattativa, ma solo un tentativo da parte di alcuni mafiosi di ottenere benefici penitenziari, a suon di bombe.
Il teorema della procura palermitana descriveva uno scenario inquietante, coinvolgendo innanzitutto alcuni alti ufficiali dei carabinieri. Tra tutti spiccava il nome di Mario Mori, generale e prefetto, ex direttore del SISDE, il servizio segreto deputato ai compiti di tutela della vita democratica (ora ribattezzato AISI). È stato assolto con la formula più ampia, insieme ad altri ufficiali del Ros, Raggruppamento Operativo Speciale con funzioni di antiterrorismo e lotta alla criminalitá organizzata.
Assolto anche Dell’Utri, grande amico di Berlusconi con cui ha condiviso buona parte della vita imprenditoriale e politica. Per lui, come per i carabinieri, il fatto non costituisce reato.
E infine, per i mafiosi coinvolti, il reato contestato è stato riqualificato in tentato, per cui si è intanto maturata la prescrizione.
Ma vediamo di capire, in estrema sintesi, cosa è stata chiamata a giudicare la Corte di legittimitá.
Il reato contestato era l’attentato a un corpo politico dello stato. I militari avrebbero trasmesso ai governi Amato e Ciampi la minaccia di stragi e omicidi di uomini di stato, fatta da Cosa Nostra, se non fossero state alleggerite le condizioni carcerarie dei mafiosi in galera al 41 bis.
Secondo la procura di Palermo, la mafia aveva quindi stabilito, attraverso Mori e altri due ufficiali superiori dei carabinieri, un canale di dialogo con il governo. In questo quadro accusatorio, anche Dell’Utri avrebbe avuto un ruolo di tramite, tra i corleonesi e Berlusconi allora premier. Per lui la Cassazione ha stabilito che il fatto non sussiste, mentre per i mafiosi Bagarella e Ciná (il medico di Riina) il reato è stato ritenuto solo tentato, e quindi prescritto, a distanza di più di vent’anni dai fatti sostanziali.
L’epilogo di questa vicenda giudiziaria arriva letteralmente in un’altra epoca storica rispetto ai fatti contestati (e ritenuti non penalmente rilevanti, almeno per gli uomini di stato). Il che francamente lascia perplessi. Una giustizia, quella italiana, che sembra un pachiderma anchilosato. Un corpo molle che, anche difronte a un episodio di tale rilevanza, che ha compreso la suo interno i massimi rappresentati dello stato accusati di un vero e proprio comportamento eversivo, non riesce ad essere tempestiva nel dare le risposte che il paese attende e merita.
Perché una cosa è certa: dopo tanti anni con tutti i media a parlare di “trattativa stato – mafia”, poco importa che oggi arrivi una sentenza di assoluzione. Queste parole associate, rimbalzate mille volte su giornali e Tv, sono oramai entrate nella mente di tutti, suscitando nell’immaginario collettivo una naturale suggestione, per cui ciascuno, senza nemmeno rifletterci, si è abituato a credere che una trattativa sia esistita davvero. E non basterá una sentenza della Cassazione a rimuovere questo pensiero subliminale diffuso.
di Francesco Cristiani
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