Lavoro e amore legati insieme da Adriano Celentano in una sua celebre canzone, con un ritmo roncheggiante, che musicava: chi non lavora non fa l’amore e le orecchiabili strofe ricalcavano sulla necessità di aumenti salariali e conseguenti scioperi per ottenerli.
Erano gli anni Settanta e una manciata di mesi a venire Giorgio Gaber avrebbe cantato la libertà è partecipazione. Un valore, quello della libertà, a spingere un Italia ormai stanca delle angherie della dittatura fascista e dei dolori della guerra a dare la propria vita per ottenerla; come ancora accade oggi, spesso senza impugnare le armi ma usando un badile, manovrando un macchinario o guidando un autocarro con il rischio di perdere la vita per guadagnarsi la libertà e la dignità economica. E pensando che solo nel primo mese di quest’anno i caduti sul lavoro sono stati oltre quaranta, da sommare (secondo l’Osservatorio indipendente sulle morti sul lavoro di Bologna) ai tredicimila esiti nefasti degli ultimi dieci anni; una vera e propria strage per la sopravvivenza. Sarà stato anche per questo motivo che i lavoratori, al congresso della CIGL, hanno accolto la premier Giorgia Meloni intonando Bella ciao.
Note e versi –di Bella ciao– che toccano il cuore, ma il benessere, la dignità e la libertà passano anche per altri organi del nostro corpo e per tenere tutto in salute, nella società del capitale, non è possibile alienare il concetto di reddito come frutto del lavoro, benché a ricordarsi delle futuristiche previsioni fatte in un passato di non oltre un secolo, di lavoro duro e puro –di quello senza diritti, senza dignità e sfruttato– non se ne sarebbe più parlato. Invece nel terzo millennio la società si ritrova a discutere e affrontare le stesse vecchie problematiche con il rischio di vedersi sfuggire di mano i diritti conquistati sui luoghi di lavoro e ottenuti a suon di scioperi e cortei.
Eppure, a distanza di molti anni ci si ritrova ancora a parlare di sfruttamento, di esodati e di assistenza dello Stato per sopravvivere, rincorrendo la crescita economica per tutti che, anno per anno e mese dopo mese, diventa uno stato sempre più utopico da raggiungere. Si potrebbe dare la responsabilità agli occulti poteri forti, a un fantomatico gruppo di banchieri che muovono i fili del mondo o al terrorismo internazionale, all’attentato alle Torri Gemelle nel 1993 o alla globalizzazione che ha esportato i peggiori modelli comportamentali che fanno del profitto, della meritocrazia aggressiva e del valore economico assoluto concetti virtuosi, dimenticando altri valori solidali; quelli più importanti; quelli che consentono il reale sviluppo dell’umanità e non l’opportunità per pochi.
Tra tutte le ipotesi, fantasiose e non, più o meno valide alla propria maniera, sarebbe da prendere in considerazione una formulazione nuova ed etica delle regole del gioco economico. Se solo si pensasse che tutta la ruota dell’economia planetaria dovrebbe funzionare sulla base delle esigenze morali e materiali dell’uomo e non delle sue pretese, non sarebbe difficile correggere la rotta.
Esigenze tra le più diverse, che possono essere soddisfatte grazie alla disponibilità di un lavoro e di un salario che non sia stringato per le sole due prime settimane del mese, costringendo a lavoretti in nero –spesso illegali– o a prestiti difficili da onorare. In un simile scenario la strada di stipendi dignitosi, che consentano più della mera sopravvivenza, potrebbe essere un buon affare per tutti.
di Mario Volpe
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