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Scuola, il valore della bocciatura sia un punto di ripartenza atto a rieducare

Mario Sorrentino • 12 febbraio 2023

Scuola, il valore della bocciatura sia un punto di ripartenza.

Nella scuola delle competenze, nella scuola dell’inclusione, nella scuola che forma i cittadini non ha più senso bocciare.

“La bocciatura danneggia gli studenti ne riduce l'impegno scolastico e mina la fiducia nelle proprie capacità”. A sostenerlo è uno studio pubblicato sul British Educational Research Journal dai ricercatori dell'Università di Sydney (Australia), coordinati da Andrew Martin.
Lo studio è stato svolto su un campione di 3261 studenti delle scuole superiori ed è emerso che i ripetenti erano meno motivati rispetto agli altri compagni e tendevano a fare più assenze. Ma i danni riguardano anche la sfera psicologica, infatti i, questi studenti mostravano un livello di autostima più basso.

Piuttosto che ricorrere alla bocciatura gli studenti in ritardo dovrebbero essere fatti oggetto di azioni mirate che li aiutino a recuperare rispetto agli altri studenti.
''Molti studenti perdono l'anno a causa di questi problemi, non solo per la mancanza di successi scolastici - ha affermato Andrew Martin -.


Il nostro studio dimostra che, al di là dell'età, del sesso o delle capacità degli studenti, la bocciatura non rappresenta una strategia vincente''.

Il sistema scolastico italiano ha una lunga storia in fatto di valutazione degli alunni e sottolineo “degli alunni”, espressione scorretta; nel linguaggio quotidiano andrebbe utilizzata la formula “valutazione degli apprendimenti”, che prevede la capacità di un'accurata analisi multifattoriale. Il voto non è in grado di documentare in forma autentica il percorso formativo degli alunni.

Oggi abbiamo una molteplicità di situazioni: alunni stranieri, con DSA (disturbi specifici di apprendimento), con Bes (bisogni educativi speciali): a ciascuno di essi va tutelato e garantito il diritto ad imparare, nel rispetto della personalità, della cultura, dei bisogni emergenti.


Si dirà che si può prevedere un Piano didattico personalizzato per costoro! Tuttavia esperienza e osservazione dicono che un PDP (piano didattico personalizzato) rischia di tramutarsi solo in un'arida pratica burocratica.

Orbene,una valutazione espressa in voti numerici o in giudizi non può essere uno strumento formativo e ridurre il processo di valutazione al mero voto numerico è una pratica che sembra sempre più inadeguata in una scuola che mette l’intento formativo prima di quello selettivo.

Così nascono esperienze alternative, come “Mimerito” sostenuto dal Miur, che ‘premia’ i ragazzi con medaglie e distintivi vari (dalle stelle agli scudetti).


Ma anche queste pratiche che sfruttano il modello del “rinforzo” positivo molto diffuso nei paesi anglosassoni nascondono qualche insidia, poiché per esempio incoraggiano esibizionismo e ed egocentrismo.

Si sottolinea che la valutazione docimologica ha carattere monodimensionale e ricordiamo che la L. 517/77 non a caso l'aveva abolita; un acceso dibattito aveva percorso quegli anni e studiosi ed esperti di vario genere si erano confrontati animatamente, sottolineando l'aridità del voto numerico e peggio ancora delle medie aritmetiche, che non dava sufficiente dignità a un percorso apprenditivo che non si regola sulla quantità di nozioni più o meno apprese, bensì sulla qualità di quanto appreso (“Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena!”).

Un senso può avere la valutazione in giudizi quando questa è svolta a livello collegiale, quando tiene conto dell'intero curricolo dell'alunna/o, quando rispetta i tempi di apprendimento, quando tiene in dovuta considerazione le complessità emotive, sociali, cognitive e culturali dell'individuo.


Lo scenario attuale sembra controverso in proposito e rispecchia uno stato di disagio complessivo dei docenti sui piani del riconoscimento intellettuale, del disorientamento creato da un vertiginoso sviluppo tecnologico che riempie le classi di “nativi digitali” e che contrasta con la permanenza di una didattica fondamentalmente inadeguata.

 Il D.M. n°9 del 27.01.2010 introduce l'obbligo della certificazione delle competenze ovvero il “sapersi orientare autonomamente e individuare strategie per la soluzione dei problemi in contesti reali o verosimili”; la legge risponde effettivamente al bisogno di una valutazione diversa. Tuttavia nelle scuole si registra una gran confusione a partire dall'ambito semantico: la competenza rischia di essere intesa come conoscenza.

Ancora una volta si dimentica che si valuta per educare.


  Infatti,ancora oggi, la valutazione ha purtroppo uno scopo fondamentalmente selettivo perché solo in pochi casi scuole e docenti hanno avviato un processo di valutazione degli apprendimenti consapevole, etico e scientifico.

Medaglie e distintivi riportano a logiche di un passato lontano; se nelle intenzioni del legislatore c'è lo scopo di creare stimoli e motivare allo studio, dall'altra parte si rischia di incoraggiare il fenomeno sociale così diffuso di spettacolarizzazione ed esibizionismo, agevolato a volte da fenomeni di stereotipia o di effetto alone, nonché incoraggiato da adulti caratterizzati da un forte ego.

 I presupposti dell'Educazione vanno ben oltre: scoprire le attitudini e le potenzialità di ciascuno, valorizzarle, educare alla relazione e alla buona comunicazione.


 Il premio in termini di concessione di crediti, borse di studio, buoni per l'acquisto di libri, possono svolgere una funzione di riconoscimento di risultati raggiunti e condivisi collegialmente.

La scuola è prima di tutto luogo di formazione. È l'ambiente educativo per eccellenza dopo la famiglia. La società attuale incoraggia già abbastanza modelli di competitività insana, veicolata dagli stessi adulti in forme variegate.

 La scuola deve andare oltre, essa, semmai deve educare a gestire le dinamiche complesse della competitività! La pratica della peer education è straordinaria in tal senso, la “scuola dei compiti” o l'istituzione di “banche del tempo” nella scuola, dove ci si aiuta, dove tutti possono viversi protagonisti, rappresentano modelli pedagogici positivi. Io aiuto te, tu aiuti me!

Certo che piccole gare, tornei, o similari, se ben mediati dagli adulti, possano rappresentare momenti di piacevole gioco di squadra, scambio, divertimento, stimolo e motivazione a far meglio, ma anche a misurarsi con l'acquisizione e il rispetto delle regole.


Ne consegue che la bocciatura nella scuola sia una pratica antipedagogica in quanto gli obiettivi del curricolo dovrebbero “essere spalmati” nel corso degli anni scolastici, periodo di intense trasformazioni fisiche e psicologiche, in contesti intrafamiliari sempre più complessi.

Riscoprire una pedagogia del tempo, dell'ascolto, del pensare e pensarsi è urgente, a fronte dei numerosissimi episodi di disagio adolescenziale (bullismo, cyberbullismo, dipendenze di vario genere...).

Occorrerebbe un sistema scolastico capace di garantire attività di laboratorio per il recupero o per l'approfondimento (si tutelerebbero anche le eccellenze) in orario scolastico ed extrascolastico: una buona pratica pedagogica.

 Nell'attesa di modifiche strutturali sostanziali anche in Italia (come si prospetta in Austria), per ciò che riguarda la scuola secondaria di secondo grado, la bocciatura non deve rappresentare MAI una scelta superficiale e frettolosa (come spesso avviene): essa va mediata e condivisa con l'alunno e la famiglia in un'ottica di corresponsabilità educativa.

Devono essere chiare le motivazioni e va sottolineato che ripetere un anno può offrire la possibilità di fortificare gli apprendimenti e prendersi tempo.


 L'alunno e la famiglia vanno accompagnati da un pedagogista.

Solo ed esclusivamente in questi termini la bocciatura potrebbe assumere un valore formativo e orientativo eventualmente.

 Tuttavia ancora una volta l'adulto ha un ruolo determinante, un adulto autorevole sul quale fare affidamento, comprensivo ma non permissivo.

 I nostri giovani tendono sempre la mano, ma non la mostrano, desiderano sfidare e misurare l'adulto, ma chiedono - a volte un disperato urlo che nessuno ascolta - che venga loro tesa una mano.

C’è ancora molto da fare sul piano della formazione pedagogica dei docenti, spesso preparatissimi nel proprio ambito disciplinare, ma scarsamente a conoscenza delle dinamiche evolutive.

 


 
Di Mario Sorrentino, già dirigente scolastico

 

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