"Vi era una Pala d’Altare di grandi dimensioni, rappresentante la Madonna Immacolata con San Francesco d’Assisi da un lato e San Francesco di Paola dall’altro. Era bellissima e, anche se molto sciupata, era un vero e proprio “gioiello”, che Pomigliano, o per meglio dire la maggior parte dei Pomiglianesi, non sapeva neanche di possedere; era un “tesoro nascosto”.
La scoperta di una presenza artistica, misconosciuta ai più e così tanto significativa per una città come Pomigliano d’Arco, centro di non grandi tradizioni storiche e culturali, la feci casualmente, dopo il terremoto del 1980, visitando la locale chiesa di San Felice, laddove scoprii che vi era annessa la sede di un’antica Congrega, chiusa da lungo tempo, abbandonata a se stessa e purtroppo bisognosa di urgenti restauri.
Forte stupore ed emozione provai allorquando, entrata in questa vasta sala che, sebbene fosse ingombra di materiali e oggetti vari, sebbene avesse l’affresco del soffitto molto mal ridotto, a causa della forte umidità, mi si rivelò in tutto il suo splendore decorativo, tipicamente rococò.
Il pavimento ottocentesco in maiolica era bello; la cantoria era stupenda; sulla parete sinistra, in alto, troneggiava l’elegante pulpito; sotto il soffitto incannucciato campeggiava l’incantevole affresco del SS. Sacramento di Andrea d’ Aste, allievo del Solimena, simile a quello che il Maestro realizzò nella Sacrestia della Chiesa di San Domenico Maggiore di Napoli; gli stalli lignei erano pregevoli; l’altare maggiore, intarsiato di marmi policromi, vari e pregiati come pietre preziose, era di altissima qualità; ma ciò che mi lasciò letteralmente folgorata, a bocca aperta, fra il meravigliato e l’incredulo, fu ciò che vidi sopra l’altare maggiore, in fondo alla sala della Congrega, dalla allungata pianta rettangolare.
Vi era una Pala d’Altare di grandi dimensioni, rappresentante la Madonna Immacolata con San Francesco d’Assisi da un lato e San Francesco di Paola dall’altro. Era bellissima e, anche se molto sciupata, era un vero e proprio “gioiello”, che Pomigliano, o per meglio dire la maggior parte dei Pomiglianesi, non sapeva neanche di possedere; era un “tesoro nascosto”.
Ad una prima analisi il supporto ligneo mi apparve notevolmente degradato da tarli e fori; il dipinto era ricoperto da una patina scura e massiccia, con tracce di cera, di colle animali e di vernici colorate che ne occultavano e alteravano la leggibilità e con spatinature e ridipinture.
Nonostante il grave stato di degrado, immediatamente riconobbi la Pala come appartenente alla seconda metà del ‘500 e ne ascrissi la fattura, probabilmente, ad un pittore fiammingo o quanto meno alla sua bottega; forse a quel Dirk Hendricksz, il cui nome fu poi italianizzato in Teodoro d’Errico, venuto a Napoli come tanti altri in seguito ai sanguinosi fatti della notte di San Bartolomeo e alla rivolta dei Paesi Bassi, nel 1572.
La sottoscritta, ipotizzando un’attribuzione della Pala di Pomigliano d’Arco a Teodoro d’Errico, non aveva il sostegno di una documentazione certa, scoperta solo in seguito da Leone de Castris, in un impegno notarile, riportato nel regesto alla data del 9 ottobre 1586, dal quale si desume che l’artista fu incaricato di realizzare a Pomigliano un dipinto ad olio su tavola, raffigurante la Madonna Immacolata, circondata dai suoi simboli e con ai piedi prostrati san Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola, per la Confraternita della chiesa di San Felice in Pincis. E così il pregevole dipinto d Pomigliano d’Arco, a lungo nascosto agli occhi e alla consapevolezza dei più, con il sostegno di una rinvenuta documentazione, è stato riconosciuto anche ufficialmente come opera di quel grande fiammingo che operò a Napoli, ovvero di Teodoro d’Errico, rappresentando un tesoro a lungo negato, un tesoro a lungo nascosto, che, tuttavia, infine è stato riscoperto, rivalutato e anche in seguito restaurato.
Nella Pala di Pomigliano d’Arco, l’effige della Madonna sembra campeggiare al centro del quadro, circonfusa da un nimbo luminoso, e si erge con la sua bellezza nordica, il capo leggermente flesso, i biondi capelli inanellati sparsi sulle spalle, le affusolate mani in atto di congiungersi e l’ampio manto azzurro, dalle pesanti pieghe, che involge l’esile figura, su cui scivola la semplice clamide rossa in morbidi panneggi dagli orli ondulati. Discende sulla terra con gli occhi chinati verso il basso, poggiando i piedi nudi su tre teste di angelo, che ne sorreggono il peso con apparente sforzo ed è contornata dalle immagini simboliche delle litanie lauretane.
Ovviamente le opere che l’artista ha realizzato sia a Napoli che in provincia sono state molteplici: fra le tante, la prima certa è stato il notevole e bellissimo dipinto del soffitto della chiesa di San Gregorio Armeno; in seguito, l’artista si specializzò nel dipingere Immacolate Concezioni o Madonne del Rosario, accompagnate da grosse impalcature in legno intagliato e dorato, così come il gusto napoletano dell’epoca voleva, che fungevano da sostegno e da cornici, che erano dette “macchine d’altare” (basti pensare ai soffitti di San Gregorio Armeno, di Donnaromita, del Duomo) e che erano realizzate da finissimi carpentieri, i quali lavoravano nella stessa bottega del pittore e alle sue strette dipendenze. Fra le sue Pale d’altare con Madonne, sicuramente la più ricca ed elaborata è stata quella di Santa Maria a Vico, ma egli ne realizzò una anche a Baronissi ed un’altra nella vicina Saviano, nello stesso periodo in cui realizzerà anche quella di Pomigliano, nell’Arciconfraternita del SS. Sacramento.
di Vera Dugo Iasevoli
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