Le ricerche italiane sulla condizione professionale dei docenti registrano, anno dopo anno, una crescente situazione di disagio e demotivazione. Certamente influisce su questo “stato di crisi” latente l’insoddisfazione verso livelli retributivi considerati non appropriati per una categoria da cui si pretenderebbe un rinnovato slancio etico-professionale. Si parla spesso di mancanza di una carriera, di appiattimento retributivo, di assenza di incentivi, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad una più generale crisi di identità, di visibilità sociale e di autorevolezza.
Di fronte alla società della globalizzazione, della conoscenza pervasiva, del rischio esistenziale, sembra perdersi il “senso” della scuola, il suo essere luogo deputato alla trasmissione della conoscenza (da una generazione all’altra) e alla formazione delle persone e dei cittadini. La scuola rischia di apparire un non-luogo, un gigantesco “falansterio sociale” con il compito di contenere i ragazzi e di fare passare loro il tempo della crescita, possibilmente senza incidenti o danni.L’immagine è troppo cruda, ma ben esprime il disorientamento che avvolge la società circa i compiti della scuola, e che si riverbera sui genitori, sugli allievi, sugli insegnanti. In una società “senza insegnanti”, dove nessuno vuole più imparare, è difficile esercitare il mestiere di istruire, scrive con sarcasmo I Diamanti in “Maledetti professori”.
E’ difficile fare scuola oggi, in classi sempre più plurali e diverse, ove l’immaginario degli allievi segue altre piste assai lontane dalla cultura scolastica. La pluralità (dei saperi, degli allievi, degli insegnanti) è vissuta come elemento di rischio, allora si pretende un unico insegnante di riferimento (chissà, poi, perché solo alle elementari) . C’è chi vagheggia classi (ponte) di depurazione e di filtro dell’alterità sgradevole. Gli insegnanti devono riscoprire la pluralità come condizione positiva e necessaria per “educare”, per promuovere intelligenza sociale. Con brutta espressione si dice che la scuola forma il “capitale umano”, ma questa dotazione non basta più alla società, perché occorre incrementare la dotazione di capitale sociale, cioè la capacità di “fare comunità” (quindi di mettersi in relazione positiva) di un individuo, di una comunità, di un territorio.Un territorio “competitivo” è oggi caratterizzato da inclusione, solidarietà, partecipazione responsabile, costruzione di una qualità sociale della vita.
La scuola come “spazio pubblico” è pienamente all’interno di questa nuova funzione. Non è un caso che i grandi maîtres à penser dell’educazione richiamino l’esigenza di curare la formazione di menti rispettose ed etiche, oltre che disciplinate (dai saperi), sintetiche e creative . I fattori valoriali sembrano nuovamente prendere il sopravvento sulla funzione di trasmissione culturale.Significa provare a costruire un ambiente di apprendimento in cui si diventa competenti insieme, in un gruppo positivo, orientato ai risultati, a prodotti culturali che rendono visibili adolescenti e ragazzi. Occorre trasformare un gruppo amicale (la classe reale distante dalla classe formale) in un gruppo con un compito visibile, che si dà regole utili a raggiungere obiettivi tangibili.
La classe può diventare una comunità di apprendimento, che si struttura come un gruppo cooperativo, animato da una forte leadership degli insegnanti, che assicura la tenuta del clima della classe, il lavoro collaborativo (a coppie, a piccoli gruppi), l’educazione al pensiero ipotetico-deduttivo, previsionale, immaginativo, oltre che argomentati.Progettare un ambiente “educativo” di apprendimento significa operare la connessione tra saperi didattici ed organizzativi.
Ma significa anche riscoprire la centralità della motivazione, delle emozioni, del dare un “senso” all’esperienza della scuola (oggi il 38 % dei ragazzi vive male la scuola). Significa costruire uno scenario scolastico positivo, di fiducia, di recupero della comunicazione, di sostegno all’impegno, alla fatica.Non è una velleità pedagogica, una fuga romantica ma inutile, affidata alla sensibilità dei docenti.
E’ invece riflessione sulla fragilità dei nostri allievi, figli dell’insicurezza, bisognosi di protezione, immersi nei riti del consumismo. Ragazzi spesso tristi, con nuove patologie dell’anima, colpiti da potenziale riduzione del lessico e delle emozioni. Occorre farli vivere a scuola, aiutarli ad andare oltre la loro quotidiana passività di spettatori televisivi. Una scuola “viva” fa “vivere” tutte le trame della relazione, necessarie per crescere (incontri, scontri, ferite, successi…).C’è ancora bisogno di insegnanti che si prendono cura dei loro allievi, di professionisti autorevoli in classe. Docenti che consolidano la propria biografia professionale entrando in un ciclo vitale di crescita culturale.
La formazione iniziale è solo la premessa per “essere” insegnanti. Per diventarlo pienamente occorre percorrere una pluralità di esperienze formative e professionali (il “normale” insegnamento, la progettazione dell’offerta formativa, la ricerca didattica, le attività di aggiornamento e formazione in servizio, ecc.). Decisiva appare, però, la capacità di riorganizzare e migliorare le proprie esperienze di insegnamento attraverso un approccio cognitivo-riflessivo, che rimette in gioco le risorse cognitive ed emozionali.Al centro della professione docente c’è una responsabilità pubblica, che si esplica nell’etica del lavoro ben fatto, nell’impegno educativo verso i ragazzi, nella formazione di persone e cittadini consapevoli ed attivi.
di Mario Sorrentino, già dirigente scolastico
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