La vicenda processuale dell’omicidio del brigadiere del carabiniere Mario Cerciello Rega rischia di scrivere un’altra pagina della nostra storia giudiziaria di cui non c’è da andare troppo fieri..
Ieri la Corte di Cassazione ha annullato il processo di appello col quale i due americani, ritenuti colpevoli della morte del militare, erano stati condannati a 24 e 22 anni, dopo che in primo grado entrambi si erano presi l’ergastolo.
Ora si dovrá nuovamente celebrare il processo in assise d’appello, ma stavolta il giudice del rinvio dovrá tenere conto dei rilievi fatti dalla suprema Corte, la quale ha stabilito che per i due rei non sussistono le circostanze aggravanti, né il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Per cui la corte di rinvio ora rideterminerá le pene, che ovviamente non potranno che essere inferiori a quelle precedentemente irrogate, e probabilmente di non poco.
Il rischio concreto è che i due americani nel giro di qualche anno riacquistino la libertá. Nonostante non ci siano dubbi che siano stati loro, nel luglio 2019, a togliere la vita al giovane carabiniere originario di Somma Vesuviana.
Certo, agli occhi dei due americani la giustizia italiana deve sembrare assai meglio di quella del loro paese d’origine. Innanzitutto perché nella loro patria in molti stati, per un reato del genere, in tribunale avrebbero rischiato la pena capitale. Mentre per strada, nell’immediatezza dei fatti, avrebbero rischiato la vita, per la reazione dei colleghi del morto. In America si sa che le forze dell’ordine hanno la mano pesante e il grilletto facile.
Non che qui da noi le cose siano tutte rose e fiori. Quanto accaduto quella tragica notte ha infatti dato luogo a un altro processo, a carico di un carabiniere appartenente alla stessa caserma di Cerciello, il quale nei confronti degli arrestati avrebbe usato mezzi coercitivi non consentiti, in particolare bendandone uno.
In questa indagine sono venute fuori frasi molto pesanti, scambiate tra i militari dell’Arma subito dopo che i due americani erano stati portati in caserma. Qualcuno scriveva “squagliateli nell’acido”, un altro “fategli fare la fine di Cucchi”, o “ammazzateli di botte”. I superiori avevano invitato i carabinieri a mantenere la calma, ma a quanto pare parecchi di loro si erano fatti prendere la mano.
Durante il processo di primo grado, poi, tre testimoni chiave erano stati accusati di falsa testimonianza. Secondo la Corte d’assise avevano fornito un quadro alterato della realtá dei fatti. Insomma, mano a mano che la giustizia è andata avanti, in questa brutta vicenda, il quadro si è complicato sempre di più. Fino a che si è giunti a oggi, con un processo d’appello da rifare completamente, per riscrivere la pena da assegnare ai due colpevoli. I quali nel giro di tre gradi di giudizio sono passati dalla disperante prospettiva di passare tutta la vita in carcere, a quella di riacquistare la libertá dopo nemmeno dieci anni di galera.
Stupisce poi che tutto ciò non scateni alcuna delle solite polemiche che dividono l’Italia in casi del genere. Nessuna voce, tra i politici e i professionisti del circo mediatico, si è alzata per urlare pene esemplari per chi uccide un carabiniere. Sará mica perché i due assassini hanno in tasca il passaporto a stelle e strisce? L’Italia, si sa, in casi del genere non ci ha mai tenuto troppo alla propria sovranitá giudiziaria. La strage del Cermis insegna.
di Francesco Cristiani - avvocato
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