“Dottore, io sto bene, non sono più depresso. Ma non ci sta piacere”.
Sì, lo spiego proprio così quando mi chiedono cos’è l’anedonia. E, in questi casi, mi vengono in mente due cose: l’alfa privativo e la canzone di Pino Daniele. Marcello, però, non aveva studiato il greco ed era troppo giovane per conoscere questa canzone. Forse, in un mondo ideale, sarebbe stato anche troppo giovane per conoscere la depressione, ma questa è un’altra storia. Sono oramai persuaso da diversi anni che la realtà è fattuale e che tutte le speculazioni sulla giustizia, sulla verità, sul ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere non servono a niente.
Sì, Marcello aveva sofferto di depressione a vent’anni e, ora che ne aveva 22, era ancora in lizza, per noi amanti della psicopatologia e della statistica, per la vittoria di un disturbo bipolare che, da qui a qualche anno, si sarebbe potuto manifestare spazzando via ogni lentezza, ogni indecisione, ogni piattezza che questo giovane studente di qualcosa dal nome molto esotico, ma che non avevo capito bene data la mia veneranda età (ai miei tempi esistevano cinque lauree, abbiate pazienza), viveva oramai giornalmente da quando era “guarito”. Guarito dalla depressione? Sì, gli avevano detto così, perché non aveva più un umore depresso, perché non piangeva più. Già, non piangeva più, come se il non piangere più fosse una cosa buona.
Chi non riesce a piangere più non riesce a ridere più, vale a dire vive in un limbo sospeso senza alcuna emozione. È come se lui fluttuasse nella vita. Niente più fa commuovere, vale a dire che niente più si muove dentro. Certo, non vuoi più ucciderti e non piangi a dirotto senza motivo, ma non piangi più neanche quando un motivo ci sarebbe, e ti senti come se fossi un modello base senza qualche pezzo. Inadatto alla vita, diverso dalla tua vita di prima. Ogni qual volta esiste un prima ed un dopo c’è sempre qualcosa che è morto dentro.
Eppure, nonostante la brillante descrizione di questo studente di qualcosologia forse applicata, tutti facevano spallucce e gli dicevano che stava bene. Stava bene perché non aveva più l’umore depresso. Come se l’anedonia non fosse depressione, come se esistesse una sofferenza che non è sofferenza. Gli avrebbero dovuto spiegare che aveva ragione, che stava male ma di un male diverso, più subdolo; chiamare in causa la sintomatologia residua, la risposta parziale, il meccanismo del reward e le terapie efficaci che ci sono ma che non sono standard perché lo standard resta ancora quello di vent’anni: succede quando il cambiamento di pratiche consolidate dall’uso fa più paura della patologia stessa. Non è colpa di nessuno, non lo si fa con cattiveria o per incompetenza, ma solo perché attraverso l’abitudine, come dice quel tale, si pensa di raggiungere l’immortalità.
“Ci possiamo provare, Marcello, ma dobbiamo stare attenti. Dobbiamo prendere tutte le precauzioni, molte delle quali ti sembreranno anche eccessive, per evitare che per curarti questa cosa tu ti ritrovi, tra una settimana, appeso ai muri come l’uomo ragno. Ci stai?”.
“Sì, dottore, ci sto. Non mi fa paura questa cosa, non mi dispiace e non provo alcuna emozione per questa speranza, o per questa novità”.
Appunto.
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