Questo osano fare i capolavori della narrativa che rendono immortali le pagine nate da autori dal tocco divino e custodi dell’inspiegabile dono di una schietta ed empatica scrittura creativa libera dalla spocchia del perfezionismo, dalla saccenteria auto referenziata e dall’immensa mediocrità di falsi scrittori incapaci di fluidificare le gioie e i dolori della gente di carta e delle loro storie dalla fantasia di chi scrive alla realtà di chi legge.
È semplicemente questo ciò che fanno i buoni libri.
Per sentire la sensazione dell’ago che buca la vena e il fluido ematico defluire lungo la cannula fino a riempire il sacchetto sterilizzato; per provare un brivido su tutta la schiena per la linfa vitale che passa dal nostro corpo a quello di qualcun altro che ha bisogno di sangue fresco per continuare a vivere, non c’è altra via che offrire il proprio braccio al medico prelevatole in ospedale o in un centro di emotrasfusione per sottoporsi all’altruistico e generoso atto della donazione.
Eppure, una tale percezione capace di un profondo turbamento emotivo è possibile provarla senza versare nemmeno una goccia di sangue, ma solo grazie al lavoro d’immaginazione prodotto dalle sinapsi e da tutto il sistema nervoso stimolato dalla magica pratica della lettura, dalla concentrazione della mente su storie profonde e coinvolgenti come il racconto Cronache di un venditore di sangue dello scrittore cinese Yu Hua.
È questa la storia di un operaio della Cina maoista che per sostenere moglie e figli si offre di vendere il suo sangue all’ospedale della città. Pratica –all’epoca– di uso comune in Cina, dal momento che il sangue lo si vendeva e non lo si donava.
Un racconto quello di Yu Hua così realistico e tagliente capace di scuotere l’immaginazione al punto da trasformarla in realtà, almeno nella testa del lettore. Questo è ciò che fanno i buoni romanzi: aprono la porta di un mondo diverso dal nostro invitandoci ad entrare, spesso spingendoci con arroganza, con dolcezza o stimolando la curiosità al punto da farci perdere la strada del ritorno.
Chi leggendo Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway, non ha sentito almeno una volta la sensazione di brucione nella mano causata dal filo della lenza strattonata dall’enorme pesce spada preso all’amo; o la stessa sensazione di rabbia del pescatore affannato ad allontanare gli squali a colpi di remo per proteggere il suo pesce attaccato alla fiancata della barca. Sembra quasi un incantesimo alla nostra immaginazione, lanciato dallo scrittore, capace di mettere in riga parola su parola con l’abilità di un vero mago trasformista. Un bugiardo incantatore attraverso il suo narrare, eppure capace di rimpiazzare, con un libro, la voce della nostra coscienza.
Non c’è da meravigliarsi, perché è questo che fanno i bravi scrittori e i buoni romanzi. Sono capaci, senza fronzoli e nella più assoluta leggerezza, di sintonizzare le coscienze dalla modalità lettura a quella di verità parallela. Una sorta di realtà virtuale messa in piedi semplicemente con carta e inchiostro, strumenti di una disarmante semplicità a cui si concede il potere di creare un legame indissolubile tra il lettore, l’autore e la sua storia. Una voce che dal libro sussurra alle orecchie di donne, uomini, ragazzi e bambini sparpagliati per il mondo richiamandoli a sé, parlandogli viso a viso fino alla sfrontatezza di rivolgersi in confidenza a chi non si conosce come osa fare Michel Faber con il suo romanzo Il petalo cremisi e il bianco.
Questo osano fare i capolavori della narrativa che rendono immortali le pagine nate da autori dal tocco divino e custodi dell’inspiegabile dono di una schietta ed empatica scrittura creativa libera dalla spocchia del perfezionismo, dalla saccenteria auto referenziata e dall’immensa mediocrità di falsi scrittori incapaci di fluidificare le gioie e i dolori della gente di carta e delle loro storie dalla fantasia di chi scrive alla realtà di chi legge.
È semplicemente questo ciò che fanno i buoni libri.
di Mario Volpe
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