"Dottore, non so se sono riuscito a spiegarmi bene”.
Me lo chiedeva sempre, all’inizio ed alla fine di ogni incontro e poi durante, ad intervalli regolari. Era difficile rispettare i tempi, con lui, e se ne andava sempre con un’aria insoddisfatta; come se qualcosa se lo fosse perso per strada, come se qualcosa, sulla sua tabella di marcia, non fosse stato rispettato. I genitori lo avevano chiamato Otto: un nome palindromo, gli feci notare sin da subito, ed aveva cominciato a contare le cose proprio ad otto anni. Un falso ricordo come ne capitano spesso in questi casi, forse, o una coincidenza che, più che di interesse psichiatrico, aveva una valenza romantica, quasi letteraria. Lo penserei davvero se fossi mai riuscito a trovare qualcosa di romantico o di letterario, in tutta questa sofferenza.
Otto era un ragazzo con sintomi ossessivi, di quelli che vedi lavarsi le mani mille volte, per intenderci, o che controllano sempre se hanno chiuso la porta dietro si se’. Non perché siano molto puliti o custodiscano tesori, nelle loro stanzette: tutt’altro, lo fanno perché, se non lo facessero, qualcuno, anche lontano migliaia di chilometri, morirebbe di una morte atroce. Le aveva tutte, Otto, quando venne per la prima volta da me: rupofobia, ablutomania, checking... e tutte le sapeva, per averle studiate a fondo non credo nella speranza di guarirne, ma per essere certo di non essersene persa nessuna. Un collezionista di ossessioni, insomma. Le aveva tutte e, tutto sommato, credo ci fosse affezionato, a modo suo; erano una maniera a portata di mano per sfuggire a tutta quella vita che gli faceva paura, come gli faceva paura prendere i farmaci, di cui conosceva tutti gli effetti collaterali. Anche quelli ipotizzabili ma non ancora scoperti.
“Ti spiace se gioco un po’ io a fare il medico?”, gli dissi così la prima volta, cercando di contenere quella tempesta di dubbi che aveva riempito il mio studio mettendo ordine in tutte le mie carte, e scompigliandomi i pensieri. La poca asimmetria presente sulla mia scrivania, creata ad arte per ragioni di copione, lo distrasse il tempo sufficiente affinché potessi fargli accettare qualcosa, con il disappunto della madre che voleva soltanto che questo incontro si concludesse come tutti gli altri, vale a dire con un nulla di fatto. “Non basta parlare un po’?”. Mi limitai a risponderle con uno sguardo di commiserazione.
La prima telefonata giunse dopo un quarto d’ora.
“Dottore, mi manca l’aria e ho un prurito per tutto il corpo!”
“Otto, è inverosimile che i sintomi siano comparsi prima che tu assuma alcunché, per effetto della sola prescrizione”. Ne seguirono molte altre, e le mie risposte diventarono sempre più sarcastiche. Piuttosto che non rispondergli o mandarlo affanculo come avevano fatti i colleghi prima di me, mi resi conto che le mie frasi paradossali funzionavano bene con lui, dandogli un appiglio maggiore a quella realtà con cui, per fortuna, non aveva mai perso i contatti. Seppure in un tempo raddoppiato rispetto al solito, riuscimmo a portare il farmaco alla minima dose efficace, e lui cominciò a sentirsi meglio. Iniziammo così, abbandonata la sua corazza ossessiva, una psicoterapia.
“Dottore, stavolta davvero non so se sono riuscito a spiegarmi bene”.
“Per la verità hai arronzato un po’ (sorrise), ma può andare bene anche così. Siamo io e te, in fondo, non ci sente nessuno”.
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