"... quindi cosa ora facciamo di concreto per la mia depressione farmacoresistente?".
Aveva cominciato malissimo. Per quanto si possano tenere fuori dal mio lavoro i problemi personali e gli umori freschi di giornata, in questo momento di questo giorno una frase del genere rischiava seriamente di scatenare l'inferno. Il mio personalissimo inferno. È singolare come tema più al giorno d'oggi, dopo vent'anni di professione, una mia reazione di quanto non la temessi anni fa. Vent'anni fa sapevo che ogni atto deve essere un atto terapeutico: oggi ne sono assolutramente convinto, senza alcuna alternativa. Solo che oggi so bene che anche una esplosione, una mia esplosione, può essere un atto terapeutico, al di là di ogni procedurale diplomazia. Mi trattengo dall'esplodere, ma non per questo rispondo con meno aggressività di quella insita nella domanda.
"Di concreto?", seguì espressione interlocutoria di sorpresa. "Abbiamo forse scherzato, fino ad ora? No, non mi risponda, era una domanda retorica, ma soltanto per quanto concerne la mia parte. Mi spiego meglio. Io mi sono impegnato a cercare, per quanto nelle mie possibilità, di tradurre in concreto il suo disagio e di trovare una soluzione. Ma lei, cosa ha fatto lei di concreto, per se'? Parte dal suo presupposto, con il quale io le dico di non essere d'accordo (potrei dirle che sta sbagliando, badi bene, ma non lo faccio), continua allo stesso modo dopo la mia spiegazione, una prima, una seconda, una terza volta, non prestando minimamente ascolto a ciò che le sto dicendo.
Si fa diagnosi, se la aggrava, decide che la terapia non è corretta, che le farà male pur non avendo ancora iniziato a prenderla; la prende, poi, una volta sola, ad un dosaggio più basso, in un momento diverso della giornata, insieme a farmaci che io non le ho prescritto e che le ho detto di non prendere perchè inutilmente sedativi. Li assume lo stesso, si sente sedata, dà la colpa al farmaco che le ho dato io. Quindi, decide di non assumerlo, l'unico farmaco efficace e decide di non prenderlo per continuare ad assumere ciò che vuole lei, ciò che prende fuori prescrizione da anni, e che non funzionerebbe neppure se glielo somministrasse Freud in persona cantandole una ninna nanna. Dico Freud perchè se le dicessi il nome di un grande psicofarmacologo non le direbbe assolutamente nulla, ed è proprio questo il punto: conosce l'effetto Dunning-Kruger? No? Se lo vada a cercare su internet, ma cerchi di leggere la spiegazione fino alla fine, anzi, cerchi di leggerne più d'una, per farsene un'idea almeno imprecisa.
Lei non accetta i nostri ruoli: io accetto la sua sofferenza e, per certi versi, anche la sua supponenza, perché questo è il gioco delle parti; lei, invece, non accetta il mio. Mi porta il suo problema e vuole che glielo risolva come lei pensa debba essere risolto, che è come ha sempre fatto, per poi addossarmi la colpa del fallimento. Interessante, non trova? La conlusione sa qual è? Che lei ha una depressione farmacoresistente perché non risponde alle terapie che lei decide di non assumere! Adoro le profezie che si autoavverano, le trovo così naive nella loro ingenua inconsistenza. Mi consente uno spoiler selvaggio?
Lei non ha una depressione farmacoresistente perchè non è neppure depresso! No, non dica nulla, la sua faccia è abbastanza eloquente: io non ho capito nulla. Forse non è alla mia portata, forse il suo caso è talmente complesso da richiedere uno specialista con competenze ben superiori alle mie. O, forse, ha soltanto bisogno di un altro specialista, l'ennesimo, che le dica ciò che lei vuole sentirsi dire, per poi buttarlo via come tutti gli altri al primo, timido tentativo di contraddirla. Perché succederà, ovviamente, quando lei si lamenterà che il bicchiere d'acqua che le è stato somministrato le ha fatto seccare la gola. E, allora, il povero malcapitato sarà un supponente nel voler esercitare la sua professione, nel voler applicare quello per cui ha studiato e studia ancora oggi!
Come sappiamo essere presuntuosi, noi dottori! Quindi, sa cosa le dico? Mi arrendo, ha vinto lei. Si tenga il disturbo che non ha e lo curi attraverso la terapia che non assume. Resti convinto, ancora più convinto, che soltanto lei ci ha capito qualcosa. Resti saldo in queste sue convinzioni, che io le invidio, percché io, invece, ho tanti dubbi quante sono le cose che, in queste ambito, conosco. E sono proprio tante, mi creda. Io la capisco, in fondo: è come quel professore di filosofia che conoscevo, e che di filosofia conosceva solo Hobbes: lo citava sempre, per ogni cosa. Proprio come fa lei. Forse non è un caso che lei sia un professore di filosofia, a ben pensarci...".
"Mi dica cosa devo fare, allora".
"Affidarsi. Affidarsi può bastare, il resto è compito mio".
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