“Tutti mi vogliono vedere ingrassata”.
Non si poteva dare torto a questi tutti, nonostante non avessi mai nutrito una particolare simpatia per i nomi collettivi, che nascondono spesso la debolezza delle loro idee dietro un affollato anonimato. La semplicità del pensiero di questi “tutti” aveva però un fondamento quasi ancestrale perché, da qualche parte nella nostra testa, una persona troppo magra sembra meno sana di una più grassa. Non sappiamo chi ce lo abbia ficcato in testa, dove o quando, e non sappiamo neppure chi sia questo tizio. Ma tant’è, è così per noi come per tutti, anche per Claudietta che mi sembrava ancora più piccola vestita dei suoi grammi così riccamente truccati. Perché il trucco fa peso.
Mi preoccupava, mi preoccupava questo suo stare bene, quasi felice, una condizione così diversa da tutte quelle inquietudini che, da molto tempo nonostante i suoi pochi anni, avevano trovato la strada del corpo. Una strada diversa, di segni, disegni solchi e ricordi incarnati. Era un’altra cosa, ora. Avrei tanto voluto credere alle statistiche, ai dati epidemiologici, a quelle storie naturali di malattia che parlano in astratto; che non hanno nomi propri, se non quelli collettivi ed impersonali di cui sopra. Nomi e dati dietro cui si nasconde la nostra paura, di terapeuti intendo, ed il senso terribile della nostra inadeguatezza. Non possiamo guarirli tutti, ma lo vorremmo tanto.
Sempre. E, ogni volta, ci restano quei segni, disegni, solchi e ricordi incarnati. Una empatia dolorosa da cui dobbiamo difenderci se rischia di diventare non più terapeutica. Perché noi, a differenza dei genitori, degli amici, dei conoscenti, della signora affianco e del corriere di Amazon che, nonostante la fretta, guarda Claudietta e pensa “ma sta male? E nessuno fa niente? Lo vuoi un panino con la Nutella?”, dobbiamo sopportare la nostra angoscia e cercare di fare qualcosa di utile. Sì, di utile, anche quando vorremmo cedere alle nostre paure, cedere le armi, mandarla al diavolo a ricoverarsi da qualche parte dove si occupino del suo corpo come se la mente non c’entrasse niente.
Dove le schiaffino qualcosa in bocca e la facciano ingrassare, sì, ingrassare, perché sennò… sennò muore. Si muore anche in psichiatria, si muore anche quando si è talmente giovani che la morte dovrebbe essere una scommessa persa. Ma non cedi, non cedi alle tue paure ed alle pressioni del mondo che ti intima, non ti chiede, di fare qualcosa, di prendere quei provvedimenti che nessuno, genitori compresi, hanno preso mai. Non gliene fai una colpa come loro la fanno a te, perché hai studiato, perché con la tua teoria, che ti difende, comprendi, anche quando non giustifichi, e vai avanti. Perché il setting ti salva dal cedere, dal crollare, dall’essere schiacciato sotto il peso di questa quindicenne che peserà come tutte le carezze che voleva e che sente di non avere ricevuto.
Che più diventa simile ad un morto e più fa paura e più allontana tutti, quei tutti che restano a distanza di sicurezza, che non la sfiorano neppure quasi si possa rompere, spezzare dietro un abbraccio troppo forte. Il mondo non sa che la sua determinazione è d’acciaio, e non può spezzarsi ma solo piegarsi. Per amore. Non cedi alla paura, ma non ti illudi; sai che ci sarà un momento in cui dovrai fare altro; ma il momento deve essere quello giusto, non prima e non dopo, sennò avrai perso tutto e, anche se dovesse pesare un chilo in più, morirebbe ugualmente. Sola.
“Io non ti voglio vedere ingrassata, del tuo peso non me ne fotte un cazzo. Io ti voglio vedere felice”.
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