“Dottore, sento le voci!”.
No, non le sentiva davvero. Per una legge non scritta, chi sente davvero le voci difficilmente lo dice e, se lo fa, non ci mette mai tutta questa enfasi. Soprattutto di primo mattino.
No, Luigi non sentiva le voci e non le avrebbe sentite mai, semplicemente perché non era questo il suo problema. Sentire le voci è difficile, e presuppone una serie di eventi che non trovavano posto nella sua storia. Detto altrimenti, la sua anamnesi non rendeva questo fenomeno dispercettivo “comprensibile”. “Comprensibile?”, già vi vedo sobbalzare dalla sedia, persuasi magari che in psichiatria di comprensibile non vi sia nulla.
Devo precisare, e Dio solo lo sa quanto odi farlo, che in psichiatria è quasi tutto comprensibile, vale a dire derivabile, e quel poco che non lo è, vale a dire quelle condizioni che capitano e basta, sono tanto studiate e note da non suscitare mai alcuna meraviglia. Il problema resta il contesto: avere un cane in casa è un fatto piuttosto comprensibile se amo i cani e voglio tenerne uno con me; ma cosa succederebbe se tornassi a casa e, dal nulla, trovassi un cane sul mio divano? Cercherei di capire come ha fatto ad entrare, controllerei la porta, le finestre, chiederei ad amici e parenti che hanno la chiave se qualcuno ne sa qualcosa.
Alla fine, ma solo alla fine di questo processo, se non riuscissi a trovare un’altra spiegazione, dovrei accettare che il cane, che non può essere spuntato dal nulla, forse, lo vedo solo io. Questo, riassunto in breve, è il lavoro dello psichiatra: capire come ha fatto ad entrare il cane, non nella stanza ma nella testa del paziente. In questo senso, lo psichiatra è un po’ come il tenente Colombo, che va a ritroso partendo dall’assassino per capire come ha fatto (mi accorgo mentre lo dico che il tenente suddetto ha un cane, di nome “Cane”. Tutto molto interessante).
Luigi, dunque, mi dice che sente le voci di un uomo, non di un cane, e che questo uomo è il demonio. “Psicotico!”, sento le urla fino a qui. Non so se tutta questa sicurezza mi faccia sorridere di tenerezza o mi provochi un brivido di ribrezzo. E come fate a dirlo? “Perché sente le voci del demonio!”. Ancora più interessante è che voi crediate alle voci ed al demonio. Andiamo con ordine. Noi conosciamo un fatto, un piccolo pezzo di una cornice più ampia, ma nulla sappiamo del protagonista, che è il proprietario delle voci. Avete commesso l’errore più grande che si possa commettere in psichiatria, vale a dire fare una diagnosi senza aver parlato con il paziente.
Che tipo è Luigi? Qual è la sua storia? Ecco, Luigi è una persona molto, molto precisa, e non è raro che questa puntigliosità, questa rigidità si associ ad una intelligenza non proprio altissima. Insomma, Luigi deve fare le cose in maniera ripetitiva, sennò va in crisi. Non solo, Luigi è una persona divorata dai sensi di colpa ed è molto cattolico: e cosa succede ad un fervente cattolico, non molto intelligente ed estremamente rigido e preciso quando lui pensa di commettere un errore (leggi peccato)?. Ovvio, deve andare all’inferno, accompagnato dal diavolo in persona.
Ecco che il sintomo meno derivabile del mondo comincia a diventare tanto comprensibile da essere una modalità di risposta della personalità di base. Il fatto che mi debba ripetere le cose un certo numero di volte, la presenza di qualche piccolo rituale nonché l’assenza di una angoscia di qualità “psicotica” (questa non ve la spiego per lasciare un po’ di mistero), fanno il resto. No, Luigi non sentiva le voci e non le avrebbe sentite mai, salvo se non avesse sviluppato una demenza in tarda età o non avesse sbattuto la testa contro un camion in movimento (sopravvivendone, ovviamente). Di conseguenza, non vi era nessuna diagnosi di schizofrenia, tantomeno farmacoresistente. Dovevo trattare queste “voci” introducendo un antidepressivo. Ma, prima di fare ciò, un ultimo coup de théâtre.
“Luigi, ma queste voci dove stanno?”
“Nella mia testa”.
“Sei la schifezza degli schizofrenici, ma un ottimo ossessivo”.
“Ed è una cosa buona?”, sorride.
“Sì”, gli sorrido anch’io non riuscendo a nascondere una certa tenerezza.
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