Il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità, in via preliminare, il disegno di legge preparato da Roberto Calderoli. Il ddl delinea la cornice entro la quale le Regioni potranno, in futuro, chiedere allo Stato il trasferimento delle funzioni e competenze definite dagli articoli 116 e 117 della Costituzione.
Il grande pericolo che in molti vedono nel progetto del governo è un ulteriore ampliamento dei divari territoriali (tra Nord e Sud ma anche tra aree interne e centri urbani, tra periferie e città), già oggi molto marcati. Secondo l’ultimo rapporto di Save the children, a fronte di una dispersione scolastica nazionale media del 12,7%, la Sicilia raggiunge il 21,1% e la Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%, vicino all’obiettivo europeo del 9% entro il 2030.
«Per quel che sappiamo finora, non ci sembra che il progetto di autonomia differenziata segua la logica perequativa indicata dall’articolo 3 comma 2 della Costituzione. Cioè dare di più a chi parte con meno», osserva il presidente dell’impresa sociale Con i bambini, Marco Rossi Doria.
«Siamo molto preoccupati – aggiunge –. Il governo dica chiaramente che non si prenderà in considerazione la spesa storica, ma la reale condizione delle persone. E questa è una questione che non riguarda soltanto la scuola, ma investe tutti gli aspetti della vita: la spesa sociale dei Comuni è molto diversa a seconda dei territori. L’Italia – conclude Rossi Doria – è lunga e complessa: bisogna fare prima la mappa delle perequazioni e poi ragionare sugli assetti. Se, invece, si fa il contrario si rischia di aumentare i divari e proteggere sempre gli stessi».
Il problema è dunque complesso e la prospettiva di una eventuale frammentazione del sistema dell’istruzione non pare, per ora, essere del tutto venuta meno, risulta.
Infatti, è viva la preoccupazione circa la possibile regionalizzazione del trattamento giuridico ed economico degli insegnanti. Nonostante le rassicurazioni da parte di esponenti di governo circa il dato per cui il reclutamento e il contratto degli insegnanti resteranno gestiti a livello statale, quindi ministeriale, non pare si possano sottovalutare le criticità che si prospettano: regionalizzare le norme generali sull’istruzione significa, potenzialmente, mutare il volto della scuola italiana, con inevitabili ripercussioni sui diritti in essa agiti – ciò riguarda gli insegnanti, ma anche e forse soprattutto gli alunni e, quindi, il futuro della collettività.
Oggi, nella categoria delle norme generali sull’istruzione “regionalizzabili” ex art. 116, comma 3, Cost., rientra infatti una vasta pluralità di materie fondamentali, come ha nel tempo segnalato la Corte costituzionale.
Si pensi solo alla disciplina dell’obbligo scolastico, alle norme sulla parità tra istituzioni scolastiche (coinvolgente la determinazione dei requisiti per ottenere la “parità” e quindi, in definitiva, il rapporto fra scuola pubblica e privata), a quelle relative alle classi di concorso per gli insegnanti; ai curricoli didattici vigenti nei diversi ordini di scuole; ai criteri di formazione delle classi; alla organizzazione didattica delle scuole primarie; ai criteri e parametri per la determinazione degli organici; alla costituzione di reti territoriali tra le scuole per la definizione di un organico di rete, l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali, la formazione permanente, la prevenzione dell’abbandono e il contrasto dell’insuccesso scolastico e formativo e dei fenomeni di bullismo, specialmente per le aree di massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica.
Come si vede, uno dei tasselli più rilevanti, nel quadro che vede il rischio di disgregazione dell’unità nazionale farsi più credibile, è quello che riguarda l’istruzione. Non sembra allarmistico segnalare che tale processo sarebbe favorito proprio dalla regionalizzazione della materia dell’istruzione, dato il ruolo centrale che una piena e uguale garanzia del diritto-dovere all’istruzione, unitamente a un’omogeneità e a un ripensamento dei programmi scolastici (orientati, nell’ultimo decennio, progressivamente sempre più alla formazione per il mercato del lavoro anziché allo sviluppo della persona umana e a una cittadinanza consapevole), possono esercitare. Tali elementi dovrebbero spingere a considerare con maggior attenzione che è proprio dai banchi di scuola che si costruisce la cittadinanza e il senso di appartenenza (o di estraneità) a una determinata comunità politica. L’istruzione statale, insomma, si evidenzia come un tutt’uno con l’unità culturale, che il giudice costituzionale ha sottolineato più volte essere il collante dell’unità nazionale.
Ne consegue la fine di un sistema unitario d’istruzione e di diritto allo studio.
È chiaro che le scuole si differenzieranno sempre più radicalmente, ben oltre gli effetti già determinati dall’autonomia scolastica.
Il divario Sud-Nord non potrà che aumentare, il valore legale del titolo di studio sarà sempre più in contraddizione con la realtà di una scuola eterogenea nei programmi, negli strumenti e nelle risorse. C’è da chiedersi cosa resterà, in questo quadro, degli articoli 33 e 34 della Costituzione.
La contrattazione nazionale scomparirà, in quanto è del tutto evidente che con l’autonomia differenziata passerà una versione regionale delle “gabbie salariali”, con i salari di alcune aree del nord che cresceranno, o resteranno stabili, e quelli del centro-sud che diminuiranno.
I lavoratori saranno messi ancora più in competizione tra loro, la loro unità sarà ulteriormente spezzata, e la resistenza che la scuola ha in questi anni proposto all’allungamento dell’orario di lavoro piuttosto che alla 107 (la Legge sulla “Buona scuola” del governo Renzi), sarà più facilmente aggirata e battuta.
La narrazione degli enti locali del Nord efficienti contro Roma ladrona è ormai una narrazione stanca e sempre meno credibile.
Le Regioni hanno già dimostrato in questi anni di non essere un’alternativa alla mala gestione della spesa pubblica, ma semmai sono parte del problema. Basta ricordare la lunga serie di processi e inchieste che hanno attraversato in lungo e in largo gli enti locali dell’intero paese.
L’opposizione a tale progetto dovrà avere la capacità di indicare strade diverse per aumentare le risorse disponibili per la scuola, partendo dalle grandi ricchezze che il liberismo asimmetrico protegge e da quel costo del debito pubblico che garantisce rendita al capitale finanziario e sposta risorse costantemente dal Mezzogiorno alle grandi banche del Nord del paese.
di Mario Sorrentino, già Dirigente Scolastico
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