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Avv. Domenico Ciruzzi: "Bene le intercettazioni, ma alla “dittatura delle Procure” rischia di seguire “l’esecuzione via social”"

Felice Massimo De Falco • 7 febbraio 2023

Intervista all'Avv. Domenico Ciruzzi: "Bene le intercettazioni, ma attenti al rischio per la libertà individuale delle persone. Alla “dittatura delle Procure” rischia di seguire “l’esecuzione via social”. Alfredo Cospito si è certamente reso responsabile di gravi ed odiosi reati ma il dato indiscutibile è che oggi si trova condannato all’ergastolo (non definitivo) e ristretto al 41 bis per un atto che non ha ucciso né ferito nessuno. Tale sproporzione – su cui giustamente si sono interrogati i giudici della Corte di Appello tanto da richiedere l’intervento della Corte Costituzionale e la stessa opinione pubblica che sta dimostrando grande sensibilità sul tema- è potenzialmente idonea a porre in pericolo il sistema della giustizia. A partire dalla “lotta” al terrorismo a cui è poi seguita l’emergenza mafiosa e successivamente la cd. “Tangentopoli” una politica impaurita, insipiente ed incapace di tracciare validi percorsi decisionali, ha rilasciato una impropria delega in bianco alla magistratura chiedendole di fare ciò che invece avrebbe dovuto fare la politica e cioè comprendere, affrontare ed eventualmente debellare fenomeni che sono sociali prima ancora che criminali. Ha sbagliato la politica a delegare ad altri i suoi compiti ed ha, allo stesso modo, sbagliato anche la magistratura ad accettare questo ruolo di supplenza che ha finito necessariamente per snaturarla. Giustizia giusta? Purtroppo, invece, spesso sotto l’egida de “La Legge è Uguale per tutti” si compie l’ingiustizia più grande secondo Don Milani: “Far parti uguali tra diseguali”.

Avv. Domenico Ciruzzi tiene di nuovo banco la querelle tra politica e magistratura dopo le parole del Ministro Nordio. Intanto che ne pensa della linea tracciata dal ministro?


Ho apprezzato le dichiarazioni ed i ragionamenti espressi da Nordio, sia in veste di Ministro che precedentemente, in tema di intercettazioni, di necessaria riforma e revisione del codice penale, di recupero del ruolo del diritto e della sanzione penale quale extrema ratio e della necessaria indipendenza tra politica e magistratura. Sono parole importanti che hanno soprattutto una valenza culturale e pedagogica, specie perché negli ultimi anni (se non decenni) siamo stati abituati a ragionamenti in materia di giustizia sovente grossolani e di matrice marcatamente giustizialista. Ciò detto, i primi interventi del Governo in tema di giustizia – penso all’introduzione del reato anti-rave, ad una riforma “fasulla” e dunque del tutto insoddisfacente dell’ergastolo ostativo ma anche all’approccio avuto rispetto al caso Cospito – vanno in una direzione diametralmente opposta a quella tracciata dalle parole del Ministro. In conclusione – e per tentare di dare una risposta alla sua domanda – non so se, all’interno della compagine governativa, esista realmente una “linea Nordio” oppure se le parole del Ministro, per quanto condivisibili, rappresentino esclusivamente un’opinione ed una lista personale dei desideri senza alcuna reale assunzione di responsabilità.

 

Cosa pensa dell’uso improprio delle intercettazioni e della perversa catena di montaggio tra certa stampa e certa magistratura?


Non è in discussione l’indubbio rilievo che le intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche hanno nel contrasto alla criminalità e nella ricerca di elementi di prova rispetto a gravi condotte delittuose. È un dato oggettivo che nessuno ha mai inteso porre in discussione

Il tema su cui però occorre interrogarsi è un altro e diverrà via via sempre più centrale a causa degli inarrestabili progressi tecnologici che stiamo vivendo negli ultimi decenni: la ricerca di un limite, di un bilanciamento tra interessi e valori contrapposti ma entrambi meritevoli di tutela.

Nel caso delle intercettazioni (in particolare, ma non solo, quelle telematiche in grado di scandagliare tutta la vita di una qualsiasi persona) entrano necessariamente in conflitto due fondamentali valori: la sicurezza da una parte e la libertà individuale (e collettiva) dall’altra.

I regimi autoritari possono disinteressarsi delle libertà e puntare tutto sulla sicurezza. Le democrazie, invece, hanno la necessità di ricercare un punto di bilanciamento, anche a rischio di lasciare impunite talune condotte delittuose.

Quantomeno negli ultimi 4-5 decenni (a partire dall’emergenza terroristica a cui è poi seguita quella mafiosa e successivamente quella relativa al malaffare politico amministrativo fino a giungere alla cd. violenza di genere) si è oggettivamente privilegiata – sia in ambito normativo che in quello per così dire culturale – la sicurezza a scapito della libertà anche a causa di taluni fenomeni storici che hanno indubbiamente funestato il nostro Paese (il terrorismo e la criminalità stragista).

È giunto però il momento di un cambio di passo, in primis perché è mutato il contesto storico e sociale: si delinque molto meno che in passato, sono in costante diminuzione soprattutto i reati più gravi e di maggiore allarme sociale e nel complesso vi è stata una crescita culturale della cittadinanza che giustamente reclama gli spazi di libertà che le sono propri. E’ dunque giusto intervenire, restringendo i casi in cui è possibile ricorrere alle intercettazioni e soprattutto evitando il fenomeno di “pesca a strascico”.

Per quanto concerne il rapporto tutt’altro che trasparente tra certa magistratura e certa stampa - quello che lei definisce con arguzia ed efficacia catena di montaggio – è un problema atavico su cui ci si è interrogati (e lo si è dunque iniziato ad affrontare) con colpevole ritardo. Alla fine degli anni ’80 ed all’inizio degli anni ’90 soltanto pochi attenti studiosi e giuristi intellettuali, tra cui il sottoscritto - che in quegli anni, da giovanissimo avvocato impegnato nel processo cd. “Tortora”, aveva avuto modo di toccare con mano l’influenza devastante dei media nel processo penale anche per le pregresse competenze acquisite nel mondo del teatro e dello spettacolo ed ha poi condensato le sue osservazioni in un breve saggio dal titolo “Informazione e Processo”- avevano lanciato l’allarme relativo ad una saldataura, foriera di gravi guasti democratici, tra una parte della magistratura inquirente ed una parte della stampa e dei media più in generale.

In questi anni, la violazione del segreto d’indagine, divenuta ormai avvilente consuetudine, ha talvolta prodotto paralleli effetti devastanti, sia sul piano strettamente processuale e sia sotto il profilo politico-sociale: gli elementi raccolti utilizzando le tecniche invasive (intercettazioni, perquisizioni, sequestri…) proprie del processo penale, “tecniche” che costituiscono un’eccezione alle garanzie di libertà del cittadino, e che la Carta Costituzionale “tollera” in via residuale esclusivamente al fine di rinvenire elementi di reità per gravi fatti in danno della collettività, vengono contestualmente propalate dai media. Tale immediata divulgazione produce gli stessi effetti devastanti di una sentenza definitiva in danno di un singolo indagato o di un intero ambiente politico - sociale senza alcuna possibilità di contraddittorio e di preventiva verifica giurisdizionale.

Devo dire che, negli ultimissimi anni, grazie anche alla crescita di una nuova sensibilità e ad alcune condivisibili modifiche legislative il problema (in particolare la pubblicazione sui giornali di intercettazioni ancora coperte da segreto o irrilevanti) è andato parzialmente scemando pur essendo ancora lontano dall’essere del tutto risolto.

Ma all’orizzonte è emerso, già da tempo, un nuovo problema.

In particolare, rischiamo ancora una volta di arrivare in ritardo nell’analisi (e nella proposta di eventuali correttivi) circa gli effetti che i nuovissimi mezzi di comunicazione (internet ed i social ed un segmento della televisione che di questi nuovi media si nutre) producono sui processi penali e sulle decisioni giurisdizionali.

Abbiamo finalmente compreso che i mezzi di comunicazione classici (stampa e tivù) hanno prodotto una rivoluzione copernicana nel modo di raccontare i processi e, di conseguenza, nella percezione e nella comprensione che di essi ha la pubblica opinione. Abbiamo toccato con mano l’oscuramento di fatto del dibattimento (e dunque degli avvocati e dei cittadini) e l’esaltazione, le luci, i bagliori dedicati alla fase delle indagini preliminari, degli arresti, delle perquisizioni.

 La plateale esaltazione – con la compiacenza di una parte rilevante dei media – di un’effimera efficienza dello Stato in grado di risolvere, velocemente e con mano ferma, ogni problema sociale e/o criminale.

Vi è stato dunque, un indiscutibile mutamento dei rapporti di forza a scapito degli avvocati e della magistratura giudicante e, dunque, in ultima analisi delle libertà dei cittadini nel loro complesso.

Ma anche questa fase – per chiunque voglia e sappia leggere i mutamenti improvvisi che stanno caratterizzando la società – sembra essere in via di esaurimento. Ed in questo mutamento un ruolo importantissimo hanno i nuovi mezzi di comunicazione che, per loro natura, eliminano ogni forma di intermediazione.

I segnali appaiono più che evidenti: la delega in bianco data alla magistratura inquirente sta per essere ritirata. Così come avvenuto per la politica, la collettività appare insofferente ad ogni forma di intermediazione, ad ogni complessità: vuole un risultato, lo vuole subito e vuole deciderlo lei. I processi “pilota”, espressione di questo nuovo modo di sentire, iniziano a diventare numerosi e non vi è bisogno di citarli. Anche le indagini cominciano a non destare più interesse, anch’esse vengono tacciate di inefficienza e di bizantinismo: la gente – istruita ed aizzata da veri e propri agitatori dell’infotainment - già sa chi è il colpevole, non vuole aspettare, vuole la pena e la vuole esemplare. E si fida più del finto giornalismo di inchiesta – che li solletica, li coccola, li deresponsabilizza, li fa sorridere e li accompagna al sonno dolcemente – che dei Tribunali. In un simile quadro, è la stessa istituzione del processo (ed ancor prima la stessa amministrazione della giustizia delle società democratiche e liberali) che rischia di crollare.Alla “dittatura delle Procure” rischia di seguire “l’esecuzione via social”, tanto insulsa quanto spaventosa.


Nordio non toccherebbe le intercettazioni riguardanti la criminalità organizzata. Ma in tal modo la farebbero franca i colletti bianchi?


Non credo che l’idea del Ministro sia quella di eliminare tout court le intercettazioni per tutti i reati che non siano di mafia e/o terrorismo (anche perché si tratterebbe di provvedimenti chiaramente incostituzionali). Credo, però, che il ricorso alle intercettazioni, soprattutto quelle telematiche mediante trojan che consentono di spiare un soggetto in ogni aspetto della sua intimità, vada ridimensionato ponendo requisiti motivazionali più stringenti ed evitando fenomeni di pesca a strascico. Da questo punto di vista ritengo assolutamente necessaria l’abrogazione della riforma del 2019 dell’art. 270 c.p.p. che ha posto nel nulla il lungo e faticoso lavoro che il legislatore e la giurisprudenza di legittimità avevano portato avanti per rendere realmente compatibile la normativa in tema di intercettazioni con l’art. 15 della Costituzione, evitando i fenomeni di cd. “pesca a strascico”.

Le dico che l’argomento retorico dei “colletti bianchi che la fanno franca” non mi ha mai convinto, specie se utilizzato in un’ottica di eguaglianza. Ho – ahimè – sufficiente esperienza per poter affermare che ogni qual volta si aumentano le pene o gli strumenti investigativi contro i reati dei colletti bianchi, vi è contemporaneamente un aumento ancor più gravoso delle pene e degli strumenti repressivi per i reati predatori o “di strada”, dando vita ad una spirale che, in definitiva, crea solo dolore senza alcuna reale efficacia deterrente. Vogliamo davvero creare uguaglianza? Cominciamo a diminuire sensibilmente le pene per tutti i reati ed in particolare di quelli legati alla droga che ingolfano di disperati le carceri del nostro paese.

 


Cosa pensa del caso Cospito?


È una vicenda molto complessa che non è facile sintetizzare in poche battute. Vi sono però alcuni elementi che, secondo me, meritano di essere sottolineati.

Nel caso Cospito a farla da padrone è la sproporzione.

Una giustizia smisurata che sembra travalicare non solo e non tanto i principi codicistici (formalmente rispettati, pur con l’avvertenza – che non va mai dimenticata – che il nostro codice penale è ancora quello fascista del 1930 e che dunque non rispecchia certamente i valori di una società democratica e liberale del XXI secolo) quanto il senso comune di giustizia che alberga in ogni cittadino.

Alfredo Cospito si è certamente reso responsabile di gravi ed odiosi reati ma il dato indiscutibile è che oggi si trova condannato all’ergastolo (non definitivo) e ristretto al 41 bis per un atto che non ha ucciso né ferito nessuno. Tale sproporzione – su cui giustamente si sono interrogati i giudici della Corte di Appello tanto da richiedere l’intervento della Corte Costituzionale e la stessa opinione pubblica che sta dimostrando grande sensibilità sul tema- è potenzialmente idonea a porre in pericolo il sistema della giustizia.

Credo che sul punto, abbandonando la strumentale “linea della fermezza” a cui taluni esponenti politici si stanno faticosamente aggrappando, la politica e abbia l’obbligo di intervenire in primis per salvare la vita di un soggetto affidato alla custodia ed alla cura dello Stato e per ripristinare lo stato di diritto.

Più in generale sono profondamente convinto che il 41 bis vada sic e simpliciter abolito per tutti: si tratta di una misura crudele e disumana che si pone in palese contrasto con i principi costituzionali e convenzionali. Una misura emergenziale nata con certe caratteristiche ed in un drammatico momento storico che invece non soltanto è stata stabilizzata ma addirittura è stata resa via via più afflittiva nonostante il pericolo della mafia stragista sia obiettivamente – e per indiscussi meriti dello Stato sul punto – scemato.

Il 41 bis come oggi congegnato è pura e crudele afflizione senza alcuna reale e concreta utilità in termini di sicurezza. In una società iper-tecnologica in cui il detenuto può essere monitorato ed ascoltato senza soluzione di continuità quale è il senso di impedirgli ogni contatto fisico finanche con i suoi familiari? E quali sarebbero gli effetti benefici in termini di sicurezza derivanti dal divieto di ricevere e detenere libri, giornali e riviste? O dal divieto di ascoltare una sinfonia di Mozart o una compilation di musica leggera? La sicurezza forse aumenta grazie al fatto che le celle in cui sono allocati i detenuti al 41 bis sono nella gran parte dei casi scarsamente areate e prive di illuminazione naturale?

Si tratta di misure che mirano – o comunque necessariamente conducono – all’annichilimento spesso definitivo della persona e che, proprio perché contrarie ai principi costituzionali e lesive della dignità della persona, non possono essere in alcun modo giustificate.

     

 

Carlo Alemi e Franco Roberti si dicono contrari alla separazione delle carriere. Lei di che parere è?


Premesso che non ritengo la separazione delle carriere la panacea di tutti i mali che affliggono la giustizia, sul punto non sono affatto d’accordo con Carlo Alemi e con Franco Roberti ed invero, salvo poche e lodevoli eccezioni, con la quasi totalità dei magistrati.

Il processo accusatorio – che abbiamo convintamente e definitivamente abbracciato con la riforma del 1988 – ha come corollario ineludibile la presenza di un giudice terzo equidistante dalle parti, accusa e difesa, che sono i veri protagonisti del processo. Ed un giudice terzo – che sia e appaia imparziale – non può avere la carriera in comune (con tutte le interdipendenze che ne conseguono) con una soltanto delle due parti del processo.

Uno degli argomenti sovente utilizzati dai sostenitori dell’unicità delle carriere è che, in tal modo, migliora il livello complessivo dei giudici avendo gli stessi un duplice bagaglio esperenziale (quello dell’accusatore e del giudicante).

Credo che l’argomento sia mal posto e figlio di una visione autoreferenziale della giustizia: il punto non è avere i migliori magistrati del mondo – e sul punto non vi è alcuna prova che l’unicità delle carriere consenta di raggiungere un simile obiettivo, anzi – ma avere un processo sempre più giusto in cui le prerogative ed i diritti della difesa e dell’accusa siano tutelate e considerate nello stesso modo, cosa che oggi non sempre avviene.

Ma il punto centrale secondo me è un altro ed attiene alla qualità complessiva, in primis dal punto di vista culturale, della magistratura giudicante.

Il tasso culturale, inteso come affinamento della sensibilità per capire la complessità del mondo, è mediamente aumentato tra gli avvocati ed i Pubblici Ministeri, checché se ne dica.

Mediamente, il PM contemporaneo è cresciuto di più culturalmente: il contatto diretto e comunque più vicino con i “corpi” ed il dolore degli inquisiti e dei loro familiari, il rapporto dialettico, anche aspro, con i difensori, gli “scambi” di opinioni, e non solo, con i media hanno fatto si, pur tra errori e fuorvianti esercizi di potere, che il PM abbia maggiore consapevolezza di come vadano le cose ed abbia affinato la propria sensibilità.

È spesso precipitato invece il tasso culturale del giudice, il professionista dell’indipendenza e dell’autonomia, colui il quale dovrebbe essere ed apparire indipendente, e dunque al di sopra delle parti senza soccombere ai desiderata di altri poteri, in special modo di quelli di volta in volta al governo.

In una contemporaneità oggettivamente complessa, il giudice dovrebbe essere il più colto, “il migliore”, per poter svolgere il suo difficilissimo compito con indipendenza ed autonomia.

Ed oggi tendenzialmente non sempre lo è, salvo pregevoli eccezioni.

Non sono (o non sono soltanto) né il PM né i media il problema più urgente del processo penale contemporaneo ma la sempre più diffusa insufficienza culturale del giudicante: sovente, infatti, risulta incapace di decrittare i molteplici mosaici di interferenze che investono lo scenario del processo, non ponendo un argine alle molteplici richieste degli assunti accusatori ed alle pressioni dei media che recepiscono tendenzialmente i sussulti colpevolisti dei tanti sempre pronti a “riservare l’infamia penalistica agli altri”.

Ma perché ciò accade? Perché il giudice mediamente oggi non è più colto, non è sempre il migliore. Non sa più operare connessioni, talvolta privo di autentica cultura umanistica e munito solo di iperspecializzazione fin dal superamento delle prove d’accesso che premiano l’esegeta delle minuzie interstiziali e non l’interprete del ragionamento ampio e complessivo.

Viene premiato talvolta il giudice tutto casa, pantofole e TV, che non si sforza di ricercare stimoli culturali che gli consentano di comprendere la complessità del mondo e le ragioni degli altri.

Il rischio è che il giudice, da persona coltissima capace di leggere ed interpretare il mondo più dolente, oscuro e complesso ex art. 3 Cost., si trasformi sempre più in un topolino che annaspa tra le carte.

Per migliorare la qualità dei magistrati e di tutti gli operatori del diritto riterrei invece opportuno, come ho già più volte avuto modo di sottolineare, la creazione di un percorso comune di formazione tra giudici, pubblici ministeri ed avvocati in modo da consentire una reale ventilazione delle diverse esperienze e delle diverse sensibilità.

 

Matteo Messina Denaro godeva di uno scudo sociale vasto che gli ha consentito una latitanza di 30 anni. La mafiosità è insita nella cultura popolare?


Del caso di Matteo Messina Denaro non so null’altro di quello che leggo sui giornali e dunque non ho la minima idea se questi abbia goduto o meno di un vasto scudo sociale che gli abbia consentito di rendersi latitante per un periodo così lungo. Sicuramente qualcuno lo ha aiutato ma non sono in grado di dire se la connivenza fosse limitata a pochi soggetti o abbia raggiunto numeri tali da poterlo considerare un fenomeno rilevante dal punto di vista sociologico e/o criminale.

Non credo che, oggi, la mafiosità sia insita nella cultura popolare. Forse poteva essere vero qualche decennio fa ma oggi, grazie anche ad una capillare attività informativa, culturale e pedagogica, la quasi totalità della popolazione prova un senso di repulsione nei confronti della criminalità organizzata.

E’ però vero che, in alcuni territori abbandonati e disastrati del nostro Paese, lo Stato è del tutto assente e si manifesta solo attraverso il suo apparato repressivo. Ecco in quei territori vi è sempre il rischio che la mafia – oggi profondamente indebolita – possa provare a recuperare quel ruolo di anti-Stato che ha esercitato per lungo tempo.

Ed è per questo che, specie nei territori più difficili del meridione di Italia, è necessario investire sempre più nella cultura, nella scuola e nel lavoro.


È giusto dire come fanno in molti che la magistratura ha soppiantato la politica, sottomettendola al suo volere usando la scure del suo vasto potere? Come finirà questa diatriba? Berlusconi ha impiegato 20 anni ed ha perso, la Meloni non cerca lo scontro ma alla fine la magistratura, o parte di essa, è in sommossa.


A partire dalla “lotta” al terrorismo a cui è poi seguita l’emergenza mafiosa e successivamente la cd. “Tangentopoli” una politica impaurita, insipiente ed incapace di tracciare validi percorsi decisionali, ha rilasciato una impropria delega in bianco alla magistratura chiedendole di fare ciò che invece avrebbe dovuto fare la politica e cioè comprendere, affrontare ed eventualmente debellare fenomeni che sono sociali prima ancora che criminali. Ha sbagliato la politica a delegare ad altri i suoi compiti ed ha, allo stesso modo, sbagliato anche la magistratura ad accettare questo ruolo di supplenza che ha finito necessariamente per snaturarla.

Una volta ottenuta questa delega ed avendo pagato un prezzo molto alto, anche in termini di vite umane, nel contrasto al terrorismo ed alla criminalità organizzata, la magistratura (o meglio una parte di essa) non ha più voluto restituirla, proponendosi a tutti gli effetti come un soggetto politico, sovente in aperta contrapposizione con i partiti tradizionali. Ne è nata una battaglia trentennale, a mio parere senza vincitori ma con la contemporanea sconfitta della giustizia e della politica.

Oggi i rapporti di forze sembrano in una fase di riequilibrio non tanto perché la politica ha riacquistato forza ed autorevolezza ma perché la magistratura versa in una gravissima crisi che è figlia non soltanto degli scandali che si sono succeduti negli ultimi anni ma anche della scarsa efficienza, soprattutto dal punto di vista qualitativo, del servizio giustizia.

 

Qual è la sua idea di giustizia giusta?


Parlo della giustizia penale che è quella di cui ho una maggiore conoscenza. Credo che ci sia bisogno di un diritto penale più mite, minimo e frammentario che si occupi esclusivamente delle condotte che effettivamente mettono in pericolo la società ed il vivere civile e che non pretenda di regolare tutte le interazioni ed i rapporti tra gli esseri umani.

E poi sono fermamente convinto che una giustizia – che davvero voglia essere tale – non può prescindere da un’analisi del contesto sociale, culturale ed economico e da una verifica puntuale del tasso di libero arbitrio che vi è in ciascun singolo soggetto.

Purtroppo, invece, spesso sotto l’egida de “La Legge è Uguale per tutti” si compie l’ingiustizia più grande secondo Don Milani: “Far parti uguali tra diseguali”.

 

Quali difficoltà incontra nell’applicare le disposizioni della riforma Cartabia?


La riforma Cartabia ha modificato – talvolta in modo radicale – numerosi aspetti del processo penale e, dunque, occorrerà del tempo perché tutti gli operatori possano abituarsi alle novità e maneggiare con sapienza i nuovi istituti e le nuove possibilità previsti dalla riforma.

Accanto a taluni aspetti positivi (implementazione delle sanzioni sostitutive al carcere, aumento dei reati procedibili a querela, aumento dei casi in cui è possibile ottenere la messa alla prova, tentativo di ridare centralità e significato all’udienza preliminare) ve ne sono però alcuni scarsamente condivisibili che rischiano di creare seri problemi e di diminuire le garanzie dei cittadini imputati. Penso in particolare ai limiti ed agli ostacoli frapposti per la presentazione dell’appello ed al definitivo abbandono di uno degli elementi fondanti il processo accusatorio e cioè che vi sia identità fisica tra il giudice che ha ascoltato i testimoni ed il giudice che emette la sentenza 


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