Il bazar della politica riapre i battenti, come sempre accade alla vigilia delle elezioni. I partiti, di conseguenza, s’arrovellano per offrire agli elettori vecchie e nuove facce in contrasto e contrapposizione tra loro, ma alle prese con i medesimi problemi. Paradossalmente, problemi da affrontare e, auspicabilmente, risolvere con una linea d’azione la cui prerogativa non dovrebbe essere più dettata dall’ideologia partitica. La globalizzazione economica, sociale e comunicativa –proposta dalle nuove tecnologie– tende a sviluppare, in alcune coscienze, un sentimento nostalgico nei confronti di dottrine e peculiarità di movimenti nati in contesti storici molto diversi dagli attuali. Nel dopoguerra, infatti, la ricostruzione e la necessità di riplasmare la società sono state il terreno di coltura per i nuovi partiti e i gruppi d’azione intenzionati alla rinascita di un paese nuovo e, per certi versi, un nuovo vivere civile talvolta ispirato a modelli stranieri o a rielaborazioni di quelli nazionali, che durante la loro applicazione erano comunque falliti in alcuni aspetti.
La naturale conseguenza fu il ritorno a principi di partecipazione sociale che la dittatura aveva trasformato ad uso e consumo del totalitarismo, offrendo uno spazio pressoché nullo e adeguatamente controllato per le attività sociopolitiche del tempo. Una repressione alla facoltà d’espressione e di libertà d’aggregazione che, paradossalmente, favorì una dissidenza costruttiva capace di formare quella che sarebbe stata la futura classe politica, attiva e consapevole, dopo il ventennio fascista. A prescindere, quindi, dall’inclinazione ideologica e di pensiero di ciascuno, figure come De Gasperi, Togliatti, Einaudi, Berlinguer, Almirante – solo per citarne alcuni – e i loro prossimi successori, riversarono un bagaglio d’esperienza e maturità di pensiero che molti, oggi, non riscontrano più nella nuova classe dirigente, percepita come inadeguata a guidare un paese come l’Italia, al punto da far rimpiangere persino (parafrasando Andreotti) i politici della prima repubblica, tollerandone inciuci, sotterfugi e preferendoli ai pericoli populistici, immobilistici o riformatori dei nuovi volti della politica.
Con ogni probabilità, tali forme di retropensiero si fondano, in parte, sulla difficoltà generale della nostra società di accogliere rapidamente trasformazioni e transizioni socio-economiche senza ricorrere allo shock bellico e da messaggi poco chiari, talvolta ovvi, dei nuovi capi di partito che, adoperando in modo massivo i social-media, spesso si presentano ai cittadini con l’atteggiamento frivolo di gente da spettacolo a discapito dell’autorevolezza che ci si aspetterebbe dai rappresentanti della politica.
Così, personaggi del livello di Berlusconi, Renzi, Letta, Salvini, Meloni, Conte e altri –il cui diritto di parola è sancito dalla Costituzione più che dal buon senso– sembrano arrampicarsi sugli specchi con proposte e programmi spesso percepiti, dalla gente comune, come espedienti per fare incetta di voti più che impegni motivati dall’interesse per le sorti del paese. Percezioni rese più convincenti da incompatibili alleanze e cambi di casacca nei disperati e palesi tentativi di conservare ruoli di potere a cui è difficile rinunciare. Atteggiamenti che favoriscono la percezione di una campagna elettorale come fosse una gara a premi, in cui avvalersi dei problemi della gente per ottenere un sorpasso in curva. Allorché, drammi come il lavoro malpagato e precario, il costante annichilimento di piccole e medie imprese, l’aumento insostenibile dei costi energetici (in parte favoriti da speculazioni spregiudicate); per non parlare dell’assistenza agli anziani, dell’adeguamento delle pensioni e dei salari, dell’ammodernamento delle infrastrutture e dei vecchi problemi che investono scuola e sanità; diventati, ormai, battute di una sceneggiatura riutilizzata troppe volte per trasmissioni e confronti televisivi complici di una scollatura, sempre più vistosa, tra l’elettore e il suo rappresentante in Parlamento.
È, comunque, oggi poco realistico riproporre modelli politici e amministrativi del passato (la cui efficacia andrebbe contestualizzata alla loro epoca d’applicazione), tollerandone finanche errori e imperfezioni in nome di una maggior autorevolezza. È altrettanto vero che superficialità e incompetenze (dovute spesso a mancanza di lunga e approfondita formazione), rischiano di acuire vecchi problemi, magari generandone di nuovi come avvenuto con recenti provvedimenti che, malgrado mossi da buone intensioni, possono aprire baratri economici gravissimi. Un atteggiamento comunicativo, della nuova politica, che soffoca il dialogo critico e costruttivo, favorendo presunzione e superbia mediatica capace solo di allargare il divario tra le varie classi sociali, demoralizzando i cittadini –a tal punto– da sfiduciare l’importanza del voto e del vivere democratico.
Mario Volpe, scrittore
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