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La bellezza della lingua italiana e il glossario delle parole scomparse

Mario Volpe • 23 marzo 2023

Il tempo e l’incapacità umana di conservare il senso delle parole ammazzano la lingua. Ma nel nostro ricchissimo lessico esistono parole che pur non essendo dimenticate nella pronuncia sono poco usate nella rappresentazione comportamentale del loro significato. Educazione, affetto, stima, gentilezza, uguaglianza, rispetto, sembrano vocaboli relegati a debolezze in una nuova società aggressiva e performante. Comportamenti da sostituire, a tutti i costi, con parole legate alla sfera della forza, del coraggio, della battaglia nel modo più crudo e negativo del termine.


I delfini parlano, non è solo un’espressione idiomatica, dal momento che parlano davvero. Lo hanno scoperto, con metodi e tecniche avanzate di studio, un gruppo di ricercatori russi del Karadag Nature Reserve nell’ormai lontano 2016, ma di recente il dottor Kieran Fox –un neuroscienziato della Standford University– si è spinto oltre, identificando almeno cinque vere e proprie parole del linguaggio dei cetacei.


Parole formate da ticchettii, fischi e vocalizzi, ma pur sempre elementi basilari di un linguaggio più complesso tale da consentire la costruzione di relazioni sociali simili a quelle umane, seppur non articolate al punto da fondare una società tecnologicamente avanzata, benché sufficiente per parlarsi tra loro. Un linguaggio meno complesso del nostro, costruito su parole ben definite molte delle quali vengono perdute nel corso del tempo. Spesso sono i contesti culturali, le mode del momento, i nuovi concetti filosofici o del politicamente corretto a dettare le necessità di coniare nuove parole in sostituzione di altre; o a cancellarne alcune definitivamente perché capaci di evocare momenti poco piacevoli della nostra storia, salvo che vengano rispolverate come un desueto: globo terracqueo, pronunciato di recente dalla premier Giorgia Meloni.


Di parole ormai in disuso nella lingua italiana se ne contano tante, molte dimenticate, sia per la complessità di pronuncia, sia per la contaminazione delle lingue straniere di cui abbiamo adottato molti termini più brevi da scrivere e pronunciare, quali: meeting al posto di appuntamento o tag, e taggare, al posto di etichetta o etichettare. Altri lemmi come sgarzigliona, sagittabondo, trasecolare, ottuangenario, sardanapalesco, smargiasso o querulo sono magari lasciate in un angolo, semplicemente, perché risultano ridicole alla pronuncia;  altre come luculliano,  bislacco, alterco  potrebbero avere un sapore d’antico all’orecchio delle nuove generazioni.


Ma nel nostro ricchissimo lessico esistono parole che pur non essendo dimenticate nella pronuncia sono poco usate nella rappresentazione comportamentale del loro significato. Educazione, affetto, stima, gentilezza, uguaglianza, rispetto, sembrano vocaboli relegati a debolezze in una nuova società aggressiva e performante. Comportamenti da sostituire, a tutti i costi, con parole legate alla sfera della forza, del coraggio, della battaglia nel modo più crudo e negativo del termine.

 

Se in un autobus affollato nessun ragazzo si alza per far sedere una vecchietta o una donna in dolce attesa; se gente di ogni età si ritaglia un’ora del proprio prezioso tempo per rimanere ipnotizzati davanti alle immagini vomitevoli di serie televisive come Gomorra che esaltano nefandezze totalmente avverse alla società del buongusto, rischiamo di perderne tante altre di parole come: perdono, amicizia, amore; che potrebbero essere rapidamente sostituite con: vendetta, opportunismo, pornografia e perché no, tradimento.


Un tradimento morale e comportamentale, ma soprattutto culturale, che noi stessi perpetriamo di continuo verso le nuove generazioni a modello e stili di vita focalizzati al solo successo economico e di potere, annichilendo del tutto il dono innato dell’empatia che la nostra mente è capace di provare attraverso il suono di voci dolcissime come carità, tolleranza o accoglienza. E se parole come queste dovessero finire in uno scaffale impolverato della memoria umana, allora sì che per comunicare basterebbero soltanto le cinque parole di fischi e vocalizzi dei delfini, sempreché fossimo capaci di afferrarne l’intimo significato.

 

 

di Mario Volpe

 


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