Ci ha lasciato di venerdì 17 (febbraio). Avrebbe apprezzato l' ironia della sorte (morire nel giorno infausto per eccellenza). E la avrebbe ringraziata (andarsene nella settimana del Carnevale da lui così amato; da lui così celebrato). Non poteva esserci finale migliore per Maurizio. Chiudere il sipario della sua vorace, vorticosa e felicissima esistenza in una della Ultime Sere Di Carnovale, testo goldoniano che amava tantissimo e che aveva diretto in una memorabile messa in scena. Eh già: Maurizio Scaparro non c'è più. Con lui se ne va l' ultimo signore del teatro italiano. L' ultimo Cavaliere dell' Impossibile. Conoscendolo forse si sarebbe schernito di fronte a questo titolo così altisonante; così vagamente fiabesco. Con l' immensa ironia che lo ha contraddistinto da sempre avrebbe detto: “Mi accontenterei di essere uno scudiero del probabile.” Perchè questo era Maurizio. Un genio del fare. Il più credibile (e incredibile) sostenitore del teorema per il quale la parola regia ha senso solo se l' immaginazione si attua nella realizzazione e che il primo compito del regista sta nel trovare gli elementi, nel creare le condizioni che permettano alla visione di concretizzarsi. Indipendentemente dai modi, dai tempi e dalle risorse che si hanno a disposizione. Mi ricordo i primi giorni in cui abbiamo lavorato assieme e mi raccontava con orgoglio come aveva reinventato il Carnevale di Venezia. Siamo nei primi anni '80, lui era stato da poco nominato direttore della Biennale Teatro. “Mi telefona il sindaco, mi dice: “Maestro Scaparro dobbiamo organizzare il Carnevale ma non abbiamo una lira, che facciamo?” Ed io gli risposi: “E che possiamo fare? Facciamo una festa!” E fu così che le calli e le piazze di Venezia furono invase da centinaia di attori, di azioni sceniche, di performance. Tutto in pieno giorno, senza luci, a voce nuda e solo coi costumi. L' impatto fu immediato e straordinario. Veniva riscoperta l' essenza di un teatro povero che invece diventava ricchissimo, perchè senza fronzoli, senza la fuffa che Maurizio detestava tanto, e che riscopriva la sua ragione primigenia, il rapporto tra attore e spettatore, tra arte e comunità. Nel suo ottimo intervento alla commemorazione che abbiamo tenuto domenica 19 febbraio al Teatro Argentina di Roma, Luca De Fusco, ex direttore del Teatro di Napoli ed ora direttore dello Stabile di Catania, ha definito Maurizio l' Ultimo dei Mohicani perchè per primo e fino alla fine dei suoi giorni, non ha mai ammainato la bandiera del teatro pubblico, che va in scena con la comunità e per la comunità, mantenendo fortissimo il legame col territorio. Parliamo di un teatro ormai quasi scomparso. Il teatro che mi ha fatto innamorare. Che non doveva chiedere nulla nè al cinema nè alla televisione, che, anzi, venivano a cercare sui palchi le sue modalità, la sua qualità ed i suoi protagonisti da traslare poi sul grande e piccolo schermo. Il teatro che viveva del suo prestigio, della sua autosufficienza e dalla sua autonomia sia morale che materiale. Maurizio Scaparro, insieme all' amico di sempre Giorgio Strehler è stato l' ultimo alfiere di questa potenza; di questa unicità. E a chi, con malcelata invidia, gli imputava spese eccessive per gli allestimenti ed anteponeva le sue formidabili doti di direttore ed organizzatore a quelle di regista, lui rispondeva con i suoi spettacoli. A volte sì ricchissimi e pieni zeppi del grande gioco del teatro.
Ma molto più spesso intimi, minimali eppure potentissimi, evocativi, vere creazioni di mondi possibili. Penso al suo Cyrano De Bergerac, che viveva di una pedana, un fondale nero, una luna di legno e della straordinaria interpretazione di Pino Micol. Oppure all' allestimento di “Vita di Galileo” in cui aveva inserito come unico elemento quell' icosaedro in ferro che sarebbe diventato un' icona del teatro italiano del '900. Per finire poi col suo spettacolo forse più lirico, sentito, personale: quel Memorie Di Adriano in cui all' inizio hanno creduto solo lui e quell' altro gigante che si chiamava Giorgio Albertazzi. Anche lì, soltanto la voce di un attore immenso, la musica struggente, la danza ancestrale di Eric Vuhan e lo scenario impareggiabile di Villa Adriana a Tivoli. Ho avuto la fortuna di conoscere Maurizio. Il privilegio di essere il suo regista assistente in due spettacoli che sono un altro manifesto della sua poetica. Ne “La Pianista Perfetta” di nuovo un fondale nero, un teatro vuoto, una sedia, un baule ed un pianoforte. Ma in mezzo a tutto questo l' emozione continua di parole, suoni, racconto, all' interno di una regia che esalta l' eleganza dell' anima di Clara Schumann, la potenza del suo sconfinato amore per il marito Robert. In “L' Odissea Nella Poesia Italiana” realizzato con Pino Micol e Marcello Prayer, l' incanto viene creato addirittura attraverso la sola lettura dei versi di Omero nella esaltante traduzione di Pindemonte, accompagnata dagli ancestrali strumenti della cultura mediterranea e dalle vitalissime voci dei giovani attori della compagnia de INuovi del Teatro Nazionale della Toscana. Già, i giovani. L' altra grande passione di Maurizio, il suo obiettivo da grande e vero uomo di teatro. Il dialogo tra allievi e maestri. La creazione ed il passaggio dell' eredità. Del fuoco del teatro che non deve mai spegnersi. Anche se uno dei maestri si spegne su questa terra per farsi luce da qualche altra parte. E dovrà essere questo il nostro imperativo categorico per gli anni a venire. Non disperdere la sua eredità. Lavorare ogni giorno perchè le ragazze e i ragazzi che vogliono diventare attrici ed attori sappiano chi è stato Scaparro. Quale contributo decisivo abbia portato al teatro italiano. Come lo abbia reso forte, vitale e soprattutto, orgoglioso. Non ne abbiamo mai avuto bisogno come adesso.
In ultimo permettetemi di ricordare il Maurizio amico. L' uomo simpaticissimo e arguto con cui parlavamo di tutto. Di politica (lui socialista fino alla fine). Di Roma (la sua città amatissima). E di sport. Si, di sport. Mi ricordo il primo giorno che ci trovammo a casa sua (la sua ariosa, bellissima casa in Piazza Rodanini). Ero arrivato per prendere servizio, come si dice. Parliamo un po' di me, un po' del lavoro che avremmo fatto insieme. Alla fine del pomeriggio ci tiene a mostrarmi due cose. La prima è la locandina incorniciata di “Festa Grande D' Aprile” , la sua prima regia, del 1965. Poi mi porta nello studio. Da uno scaffale tira fuori una sciarpa giallo-rossa. La sciarpa della sua Roma. Mi dice: “Ci tenevo a mostrartela. Cioè, tu puoi tifare per chi vuoi, ci mancherebbe...ma è giusto per mettere le cose in chiaro da subito.” Ecco, questo era Maurizio. Non lo dimenticherò.
di Felice Panico
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