A volte la TV sa ancora essere un mezzo capace di esprimere qualcosa di importante e utile per la crescita sociale. È il caso del servizio andato in onda qualche giorno fa nel programma Le Iene, firmato dal napoletano Giulio Golia, sul caso dei cosiddetti “mostri di Ponticelli”.
I fatti, brevemente. Nel luglio 1983 due bimbe, Barbara e Nunzia, 7 e 10 anni, sono stuprate, assassinate e infine arse, a Ponticelli. Le indagini dapprima seguono varie piste, poi prendono una strada decisa: i carnefici sono tre giovani, di nemmeno diciotto anni. Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo sono tratti in arresto e accusati dell’orrendo duplice omicidio. Tre anni di processi mettono la parola fine alla vicenda giudiziaria, i tre sono condannati al carcere a vita. Ma si dichiareranno sempre innocenti.
L’inchiesta giornalistica delle Iene è stata condotta attraverso gli atti processuali e intervistando i protagonisti dell’indagine di polizia giudiziaria. Alla fine lascia lo spettatore in uno stato di profondo disagio. Perché che incongruenze, le superficialitá e le contraddizioni di questo caso sono evidentissime.
Emerge cosi’ che la violenza come metodo di interrogatorio era un fatto normale. A qualcuno dei sottoufficiali dei carabinieri che si presero cura dei tre sospettati, quando gli viene fatto notare, scappa una mezza risata. “Saranno caduti per le scale”, è la giustificazione data alle ferite refertate all’arrivo al carcere. Sistematico era anche il ricorso alla carcerazione preventiva nei confronti dei testimoni ritenuti reticenti o non credibili. Durante gli interrogatori il Pubblico Ministero fermava la deposizione e disponeva la custodia cautelare in carcere. Dopo un mesetto in gattabuia, in genere i testi fornivano un’altra deposizione, in linea con le aspettative del magistrato, e tornavano liberi. Al processo poi, bastava che il testimone ratificasse quanto giá dichiarato in istruttoria, riportandosi al verbale: “confermo!”
Colpisce il ruolo che i clan di Ponticelli avrebbero avuto, indirizzando chi indagava proprio su quei tre giovani poi condannati. Scopriamo cosi’ che alcuni “pentiti” godevano di un credito illimitato presso PM e forze dell’ordine, al punto tale da riuscire a intervenire nelle indagini in maniera determinante. Sono gli anni del caso Tortora, anche lui tirato in ballo da alcuni pentiti poi rivelatisi tutt’altro che attendibili e in buona fede.
Alla fine della trasmissione, il sospetto che i tre ergastolani siano innocenti nello spettatore diventa una convinzione. Ora probabilmente, anche grazie a questo clamore mediatico, ci sará la revisione del processo. E speriamo che la giustizia sappia fare correttamente il proprio corso, anche se in ritardo di quarant’anni.
La parte più inquietante del lungo servizio è l’intervista finale al sostituto procuratore che condusse l’indagine e sostenne l’accusa, Arcibaldo Miller. Il quale non ha difficoltá a fare una serie di sconvolgenti ammissioni. Che lui stesso non ci credeva, all’inizio, che gli assassini fossero quei tre. Che effettivamente in quegli anni i pentiti non erano veramente pentiti, ma collaboravano per trarre benefici per se stessi e i clan di appartenenza. E che si, è possibile che chi è stato condannato non era colpevole, ma sono cose che capitano…
Miller è stato uno dei più importanti magistrati della procura della Repubblica napoletana e ha concluso la carriera come capo degli ispettori ministeriali. Può sembrare un paradosso, ma in Italia cosi’ funziona. Certi errori per i magistrati non contano mai. Basti considerare che anche Diego Marmo, il PM del caso Tortora, il più clamoroso errore giudiziario della nostra storia repubblicana, percorse tutti i gradi della carriera inquirente arrivando ai vertici della procura di Torre Annunziata.
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