Prof. Samuele Ciambriello, secondo i dati, qual è lo stato di salute delle carceri campane?
«La mancata tutela della salute, almeno secondo la mia esperienza in Campania, resta una delle problematiche più gravose per la popolazione detenuta. Le figure sanitaria sono pressocché assenti: mancano medici di reparto, specialisti, oltre alla figura dello psichiatra, quasi assente negli istituti di pena. Sappiamo bene come già all’esterno, almeno nelle regioni del Sud, è difficile curarsi nella sanità pubblica; per i diversamente liberi è almeno dieci volte più complesso. Visite diagnostiche con liste d’attesa inaccettabili, patologie gravi che non vengono diagnosticate in tempo e, spesso, morti sospetti, dietro cui si celano mancanze mediche. Sicuramente è l’ambito in cui investire risorse, sia in termini di uomini che di mezzi. So bene che un medico – anche considerata la carenza nel nostro Paese – non è per nulla interessato ad andare a lavorare in un luogo complesso come il carcere, per questo bisognerebbe ipotizzare delle misure incentivanti e queste soluzioni non possono che partire dalla politica»
La condizione dei detenuti può dirsi consona alla colpa che devono espiare?
«Il sistema carcere ha fallito nel suo fine ultimo e questa non è retorica garantista. Il detenuto è prima di tutto uomo e non, di sicuro, il reato che ha commesso. Chi farebbe mai vivere un uomo nelle condizioni in cui si vive nelle carceri? Io credo nessuno. La dignità negli istituti di pena viene annullata e questo perché l’intero funzionamento carcerario è poco incentrato sulla persona. Proprio la persona, però, viene messa al centro di tutta la nostra Costituzione. Credo che per risolvere gran parte dei problemi, dentro e fuori dalle carceri, dovremmo ritornare ad occuparci della persona e dell’individualità»
Eppure secondo Antigone, nel solo 2022 si sono uccisi 80 detenuti. È la spia che il carcere ti fa desiderare la morte…
«I suicidi in carcere sono la prova regina di come l’attuale sistema penitenziario non è utile, non solo alla rieducazione, ma soprattutto all’attaccamento alla vita. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il suicidio è un evento non prevedibile, ma ci sono dei ‘campanelli d’allarme’, che ci devono preoccupare. Non possiamo ammettere rinvii, ritardi, piuttosto bisogna ricorrere ad adeguate misure preventive, che sicuramente possono ridurre di molto i tentativi, che poi a volte si realizzano, di suicidi. In Campania, dall’inizio dell’anno, si sono registrati 7 suicidi, molti tentativi, invece, sono stati sventati grazie al pronto intervento del personale della Polizia penitenziaria, che – io dico sempre – evitano delle stragi. La loro tempestività, tuttavia, non può essere il rimedio, bisogna certamente intervenire prima».
La politica cosa dovrebbe fare?
«Io direi cosa non potrebbe fare… Tutta dipende da chi ci governa e da chi ci rappresenta in Parlamento. La politica ha lo scettro delle decisioni. Il problema serio è che il carcere è un mondo chiuso, un luogo in cui si pensa vivano ‘rifiuti umani’, quindi nessuno punta sui temi che riguardano la privazione della libertà, non solo perché farebbero poca presa, ma addirittura potrebbero adombrare quella parte di politica che decide di farsi carico dei bisogni anche degli ‘ultimi’. Chiaro che un Paese senza carcere non può esistere, sarebbe utopico persino immaginarlo, ma volere prigioni più dignitose, che davvero siano in grado di restituire il senso del fine ultimo che la Costituzione assegna alla pena, mi sembra un dovere di cui la politica deve farsi carico. Bisogna allentare le maglie sulle misure alternative alla detenzione, sui permessi. Basterebbe, più semplicemente, che il carcere ritorni extrema ratio.
Sul caso Cospito che idea si è fatto?
«Il caso Cospito ha riacceso certamente i riflettori sul tema del regime del 41-bis. Il ‘carcere duro’ nasce non come un aggravamento della pena, come una punizione ulteriore per il detenuto. Nei fatti così però non è, anzi è divenuto esattamente quello che non dovrebbe essere, per questo non la ritengo una misura legittima. Il caso Cospito, immagino, abbia toccato tutta l’opinione pubblica, che si trova divisa tra chi invoca forme di garanzia e tra chi, invece, ritiene che la decisione di lasciarlo al 41-bis sia più che giusta. Io credo si debba riflettere profondamente su quel che sta accadendo: lo si ritiene ancora socialmente pericoloso e questo legittimerebbe che resti nel regime di ‘carcere duro’, ma lo sciopero che sta portando avanti e che gli ha già provocato molte problematiche di salute, dovrebbe indurre a chi assume decisioni così delicate ad applicare un bilanciamento tra il valore costituzionale dell’ordine e della sicurezza pubblica e quello della dignità della persona umana. Nel caso Cospito mi sembra, invece, ci sia uno sbilanciamento verso la protezione dell’ordine e della sicurezza pubblica».
Lei è molto attivo nei penitenziari campani, ha un sorriso per tutti. Di cosa hanno bisogno di più i detenuti quando vi parlate?
«I detenuti hanno bisogno di tante cose e non perché eccessivamente esigente, ma perché si tratta di persone emarginate, dimenticate dallo Stato che li ha in custodia e spesso anche dalle loro famiglie. Vivono di solitudine, di disagio, di sofferenze che, spesso, sono sproporzionate rispetto al reato che hanno commesso, al male che hanno fatto. Io cerco di aiutarli nella mia qualità di Garante, quindi di organismo di garanzia, che può interagire con diversi ‘attori’ del mondo penitenziario – direzioni delle carceri, aree sanitarie, educatori, magistrati di sorveglianza. Cerco soprattutto di creare, seppure in maniera modesta, delle piccole opportunità di risocializzazione, attraverso progettazioni, eventi. Restituirgli anche solo piccoli attimi di evasione è già un gran risultato».
Questo carcere rieduca?
«Ho detto già prima che il carcere d’oggi ha davvero scarsi mezzi e uomini per raggiungere il fine rieducativo della pena. Spesso incattivisce, proprio perché i reclusi si sentono abbandonati, inermi e anche a chi vuole cambiare spesso non ne viene data la possibilità. Mi illudo che almeno non diseduchi».
C’è una storia a lieto fine che può raccontare?
«Accanto alle storie tristi, per cui ci sentiamo piccoli ed inermi, ci sono anche storie a lieto fine, che rendono questo mondo meno duro. La storia di… »
Cosa introdurrebbe nelle carceri a supporto dell’umore dei detenuti?
«Dovrebbe essere consentito loro di autodeterminarsi, di poter scegliere tra tante possibilità quella che poi li possa aiutare anche una volta finita di espiare la pena. Il carcere deve offrire possibilità, deve far riemergere i loro quei valori che hanno dimentico e in assenza dei quali hanno commesso degli errori. L’umore si può migliorare solo restituendo serenità. Negli anni di detenzione bisogna infondere speranza, ma costruire le basi per un futuro ritorno nella società, attraverso percorsi lavorativi, di studio… I detenuti staranno meglio quando verrà data loro realmente l’opportunità di decidere se cambiare o restare nell’errore».
Testata Giornalistica con iscrizione registro stampa n. cronol. 1591/2022 del 24/05/2022 RG n. 888/2022 Tribunale di Nola