Soprattutto, in un mondo che si è consegnato al malinteso inseguimento del progresso ad ogni costo, sarebbe auspicabile un ritorno ad un passato importante che faccia da volano ad un futuro (questo sì) più equo. Ad un teatro povero, ma sincero, concreto, leale. Ad una riscoperta della performance pedagogica, epica, brechtiana. Ad un' arte dell' urgenza che racconti le reali domande, i reali bisogni, le reali richieste della comunità che la crea e della comunità che ne fruisce. Che racconti senza sovrastrutture la vita che abbiamo davanti agli occhi, ispirandoci alla parabola del Grande Inquisitore di Dostoijevskij, in cui il grande scrittore russo afferma che la verità non può essere né rivelata, nè svelata, ma solo partecipata.
Ricostruire. Ripartire. Ricominciare. Il teatro del futuro non può rinascere da quello del presente. Perchè il teatro del presente continua a morire di negazione; a rimuovere quello che è accaduto in questi tre anni opponendo il silenzio più assordante. Ha praticato l' esclusione al posto dell' inclusione. Ha servito il potere invece di criticarlo rinunciando così alla sua missione, alla sua ragione d' essere. Si è consegnato ad una comfort zone di spettacoli mai così inutili; mai così non necessari. Ha sventolato a comando qualsiasi bandierina gli sia stata messa in mano (e continua a farlo).
Se non vuole seguire il destino del cinema (con le sale praticamente vuote e tutte le produzioni consegnate alla dittatura dell' on-demand) deve riscoprire la sua ancestrale natura. Fatta di essenza, comunità, coraggio. Tornare ad essere un contenitore culturale libero, aperto, indipendente, che muova dalla volontà di fornire nuove prospettive e nuove risposte alle richieste che vengono da operatori del settore e spettatori. Apportare un nuovo contributo alla vita ed al tessuto sociale delle comunità in cui opera riscoprendo la propria dimensione storica, pedagogica e dinamica, dove per dinamico si intenda lo sviluppo di una visione nuova della cultura, della società e del Paese. Mai come adesso in Italia e in tutto l' Occidente c'è bisogno di un teatro che stimoli riflessioni alte, che ritorni ad essere lo specchio dei popoli e degli individui, recuperando gli strumenti del dialogo e della catarsi.
Abbiamo bisogno soprattutto di un teatro che ricomponga le fratture causate dagli anni della pandemia, in cui la chiusure fisiche si sono trasformate in chiusure mentali, in cui la paura ha prevalso sul coraggio, la contrapposizione sulla convivenza. Un teatro in cui si riscopra la felicità dello stare insieme, del condividere percorsi comuni e che metta al centro la difesa e l' arricchimento culturale e spirituale delle nostre anime, sopite dall' indifferenza e dal terrore.
Soprattutto, in un mondo che si è consegnato al malinteso inseguimento del progresso ad ogni costo, sarebbe auspicabile un ritorno ad un passato importante che faccia da volano ad un futuro (questo sì) più equo. Ad un teatro povero, ma sincero, concreto, leale.
Ad una riscoperta della performance pedagogica, epica, brechtiana. Ad un' arte dell' urgenza che racconti le reali domande, i reali bisogni, le reali richieste della comunità che la crea e della comunità che ne fruisce. Che racconti senza sovrastrutture la vita che abbiamo davanti agli occhi, ispirandoci alla parabola del Grande Inquisitore di Dostoijevskij, in cui il grande scrittore russo afferma che la verità non può essere né rivelata, nè svelata, ma solo partecipata.
Il teatro nel 2023 si trova di fronte ad una scelta di campo. Rischiosa ed affascinante come tutte le scelte che vanno compiute nel passaggio tra la fine di un ciclo storico e l' inizio di uno nuovo. Può decidere di restare appunto nella zona di conforto dell' arte inutile continuando a non muovere né a costruire nulla. A non incidere sulla crescita personale dell' individuo e della comunità. A non creare impatti e cambiamenti. Può ostinarsi a non vedere (e a non parlare) di quelle che oggi sono le vere minacce per la nostra democrazia e la nostra società. La dittatura del pensiero unico. La paura come condizione permanente. La disgregazione dell' identità personale e quindi popolare. La distruzione dell' economia di prossimità in favore del mercato delle multinazionali. La delegittimazione del patrimonio materiale ed immateriale delle Nazioni, sacrificato sull' altare della globalizzazione. Il revisionismo storico-legislativo col quale in questi due anni sono state messe gravemente in crisi la nostra Costituzione e la sua matrice anti-fascista.
Oppure può ricominciare a difendere il valore della libertà, della democrazia e della convivenza, improntando le sue azioni al principio di pubblica utilità e riflessione. Parafrasando le parole del co-fondatore del Piccolo Teatro di Milano, Paolo Grassi, il teatro sopravviverà se riprenderà a riconoscersi come servizio per la collettività senza applicare distinzioni in base alle convenienze del momento storico ( e politico). Tornerà ad essere decisivo solo se contribuirà alla scrittura di una storia più equa, solidale ed imparziale.
E naturalmente resterà vivo se tornerà ad essere coraggioso. Se avrà la forza, come spirito e movimento, di opporsi a nuove chiusure. Di opporre un preliminare e deciso NO a qualsiasi decisione tesa (questi tre anni ce lo hanno ampiamente dimostrato) alla sparizione dei suoi modi (lo spettacolo dal vivo e l' incontro col pubblico), dei suoi tempi (lo sviluppo di una performance che vada ben oltre i trenta secondi di un video su Tik-Tok) e dei suoi temi (critica alla guerra, ai totalitarismi, all' abbrutimento delle coscienze). Ma tutto questo non può ovviamente avvenire in astratto. Il teatro è fatto di uomini e donne chiamati anch' essi ad effettuare la loro scelta di campo. Quella di calcare il palcoscenico con la grazia di una farfalla colorata ed appariscente il cui passaggio lascerà un attimo di distrazione e nulla più. Oppure calpestare le tavole per divellere il legno. Per cambiare i destini. In direzione ostinata e contraria. Sempre.
di Felice Panico (regista e attore)
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