La definizione storica del riformismo riguarda una metodologia politica che, opponendosi sia alla rivoluzione che al conservatorismo, opera nelle istituzioni, per modificare l'ordinamento politico, economico e sociale esistente attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme. Nella storia italiana della fine del XIX secolo il riformismo ha influenzato l'evoluzione del movimento socialista, di cui ha rappresentato la corrente più moderata, e i cui sostenitori ritenevano possibile una collaborazione fra i ceti proletari e la borghesia nell'ambito delle istituzioni parlamentari, allo scopo di favorire un progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, in particolare degli operai salariati.
Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi vennero espulsi dal Partito Socialista per l'appoggio dato al governo Giolitti in occasione della guerra italo-turca, fondando il piccolo Partito Socialista Riformista Italiano e ricoprendo in seguito cariche ministeriali nei governi liberali, cosa che invece Turati rifiutò sempre di fare.
Fra gli esponenti più significativi del riformismo italiano del novecento possono ricordarsi Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Giuseppe Saragat, Bettino Craxi, Claudio Martelli, Gianni De Michelis.
Tuttavia, l’approfondimento sostanziale del concetto di riformismo non può prescindere da un altro concetto che si interfaccia con con il primo: l’azione dei Riformatori a volte contrapposta a quella dei Riformisti.
Il discorso sulle differenze tra riformatori e riformisti è complesso, e ha assunto, secondo tempi e luoghi, tante diverse sfaccettature in relazione ai contesti storici e sociali in cui le rispettive diversità si sono manifestate e hanno finito per essere così etichettate nel lessico corrente della politica.
Tuttavia, è possibile individuare alcune generali linee di tendenza, che possono essere validamente verificabili in via generale, a prescindere dai vari contesti storici.
I riformisti sono essenzialmente coloro che, in presenza di domande provenienti dalla società, in termini via via crescenti (con la diffusione di cultura, conoscenza, mobilità sociale, benessere vissuto o ricercato, etc.), cercano di moltiplicare le risposte della politica. E se le risposte non sono compatibili con le risorse disponibili, accettano il rischio di farne derivare conseguenze fiscali (per i cittadini) e finanziarie (per lo Stato), in un crescendo che porta la tassazione a livelli insopportabili, l’evasione a livelli crescenti, e il debito pubblico a livello di default.
Come sopra accennato, i riformisti sono gli epigoni del socialismo, anche di quello democratico, che tendono a modificare profondamente le strutture economiche e politiche della società per soddisfare le domande che provengono dal basso, spesso anche da gruppi minoritari ma fortemente militanti, introducendo dosi crescenti di riforme civili e di economia pubblica, sia pure attraverso azioni graduali e progressive, che invece i socialisti massimalisti, cui i riformisti si sono storicamente contrapposti, volevano e tuttora vorrebbero rapide e totalizzanti.
Le contrapposizioni con le idee conservatrici sono evidenti. I conservatori moderni avversano i progetti utopistici di società perfette, credono nella libertà individuale e nel mercato, sono intransigenti in tema di ordine sociale e legalità e nutrono un particolare rispetto per tradizione, famiglia e proprietà privata.
Galli Della Loggia entrando nel merito della questione (sul significato attuale del concetto e sull’uso politico che se ne fa) scrive che “essere politicamente conservatori non significa essere contro il cambiamento, non significa affatto essere a favore sempre e comunque del mantenimento dello status quo. Significa una cosa assai diversa: significa essere contro il cambiamento come lo intendono i progressisti. Contro i contenuti, le scelte e i tempi che caratterizzano la politica progressista, e viceversa essere a favore di scelte e contenuti differenti. Non vuol dire insomma, essere comunque contro, bensì fare il contrario. Naturalmente vuol dire anche in senso proprio cercare di conservare. Ma conservare che cosa? Direi conservare quella cosa che sono i ‘valori’ di una società, alcuni aspetti essenziali della sua ‘tradizione’.
Beninteso con la consapevolezza che i valori e la tradizione sono un fatto storico, dunque frutto del mutamento e perciò soggetti pure essi inevitabilmente a mutare. La cui difesa perciò non può che essere una difesa elastica: vale a dire ragionevole, argomentata, e inevitabilmente disposta a qualche margine di compromesso o di ritirata”. Questa riflessione apre la strada ad una concezione nuova del riformismo analizzando il vero significato del termine Riformatori.
I riformatori si distinguono sia dai riformisti sia dai conservatori, perché si propongono di conservare ciò che garantisce le libere iniziative personali, politiche, ed economiche degli individui e delle loro aggregazioni sociali, ma sono pronti anche a modificare ciò che può essere migliorato, quando si convincono che le riforme sono destinate a implementare, piuttosto che a ridurre, le libertà essenziali dei cittadini e dei corpi sociali.
I riformatori, di fronte alle domande crescenti che provengono dalla società, non rispondono semplicisticamente, a seconda dei casi, soddisfacendole tutte senza badare alle conseguenze (come farebbero i riformisti), ovvero ostinatamente ignorandole o comprimendole (come farebbero i conservatori).
I riformatori provano invece a introdurre le riforme necessarie per soddisfare le esigenze che possono essere soddisfatte senza compromettere la libertà delle iniziative individuali e sociali, ma anche senza rischiare il fallimento dello Stato, ma provano sempre a difendere ciò che ritengono essenziale per conservare alla società gli spazi di libertà che sono stati nel tempo conquistati.
In sostanza, i liberali sono riformatori perché sono, insieme, conservatori e riformisti, a seconda delle situazioni che si presentano, delle risorse disponibili, e delle conseguenze prevedibili.
Oltre 70 anni dopo, l’insegnamento che i liberali non possono che seguire è quello suggerito da Benedetto Croce nel suo messaggio al Convegno per l’unificazione delle organizzazioni liberali tenutosi a Torino nel 1951, allorché rammentò che “la Libertà si garantisce e si salva talora anche con provvedimenti conservatori, come tal altra con provvedimenti arditi e persino audaci di progresso”; e poi così concludendo: “Questi esami e queste discussioni, che si chiudono nel quadro anzidetto, sono la vita concreta del Partito Liberale, e non c’è nulla di più insulso dell’accusa che il liberalismo, non essendo di un partito solo ma comprendendoli tutti e due, non è un partito. È tanto più largo e umano, e in definitiva, più forte, quanto più è partito di centro”.
di Giovanni Passariello
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