Alessitimia, noia, disvalori, ma soprattutto illusioni e bisogno atavico di regole che le figure genitoriali, in un ruolo trasformato dal nuovo vivere sociale, non sono più in grado di offrire.
Potrebbero essere queste le ragioni di un crescente fenomeno di violenza minorile, come ha sottolineato la dottoressa Marfina Bellini del progetto Dedalus nato per monitorare il fenomeno delle baby gang nel bolognese. Una tendenza che in realtà coinvolge tutte le regioni d’Italia e che si è sviluppata anche in località dove il fenomeno era contenuto a pochi episodi di bullismo che, sottovalutati come bravate di ragazzini troppo vivaci, sono rapidamente tramutati in atteggiamenti criminali, alimentati da modelli mediatici e comunicativi in cui l’esaltazione della violenza è diventata il terreno di coltura di veri e propri comportamenti delinquenziali.
Atteggiamenti spesso giustificati e motivati, da esperti ed opinionisti, come il mancato funzionamento del mondo degli adulti che spinge ragazzini –meno che adolescenti– a trovare un punto d’unione nel branco, fulcro di comportamenti animaleschi più che organizzazione con regole fondate su principi di convivenza tribale e personale.
Vi è un modo di agire, da parte delle baby gang, lontano da regole falsamente autoimposte, ma evocate come giustificazione non appena questi delinquenti in erba sono inchiodati alle proprie responsabilità e a rispondere dei fatti delittuosi di cui si sono resi protagonisti.
Un’esaltazione della violenza convogliata da fonti sociali diverse e che trasforma le baby gang in schegge impazzite, capaci di colpire immotivatamente chiunque. Di questa incontrollata e incontrollabile bestialità ne hanno fatto le spese vittime innocenti come: Arturo Puoti, un diciassettenne che nel 2018 ha rischiato la vita per un feroce accoltellamento da parte di un gruppetto di tredicenni; o Frederick, un immigrato di quarantatré anni, che di recente è stato assassinato a calci e pugni da due adolescenti nei pressi di un supermercato di Pomigliano d’Arco.
Episodi che non si alimentano soltanto della forza del gruppo, ma sono in grado di trasmettere valori di violenza e prepotenza anche ai singoli individui, impegnati a coltivare un’immagine di potere ricorrendo a simboli diseducativi e postati come trofei sui profili social che pullulano di ragazzini in posa con coltelli, rivoltelle e mazzette di banconote sventolate con un orgoglio malato che solo un’educazione criminale riesce a tramettere. Sembrano essere questi i nuovi simboli del rispetto individuale, che in realtà attecchiscono solo in contesti incapaci di valorizzare le migliori capacità umane alimentandoli con bombardamenti mediatici che fagocitano spettatori sempre più giovani al solo scopo di fare danari sotto il falso profilo della denuncia sociale.
È innegabile, quindi, che pur additando responsabilità a genitori poco presenti e accentrati sull’egocentrismo personale e bramosi di sdoganare la delusione di fallimenti individuali, giustificano ogni aberrazione dei propri figli comportandosi da eterni adolescenti. Non solo responsabilità, ma vere e proprie colpe da attribuire a devianze culturali su cui poggiano alcuni generi di serie TV e film che i bambini e ragazzini instabili non dovrebbero vedere.
Serie come Gomorra, Mare Fuori e altre esaltazioni del crimine come riscatto sociale tendono a plasmare le giovani menti sintonizzandole, sempre più, verso un livello brutale che i social rimandano in continuazione senza alcuna forma di controllo.
Un controllo che forse, in una società dirottata su modelli di prepotenza economica, vi è poco interesse ad esercitare allo scopo di tenere sottomesso il pensiero critico delle nuove generazioni per limitarne il desiderio delle libertà che molti non sanno più di avere.
di Mario Volpe
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