La previsione del futuro è spesso una vittoria mancata, soprattutto quando le anticipazioni arrivano da voci o quotidiani autorevoli come il Corriere della Sera che in un’edizione del 13 settembre del 1972, un mercoledì, titolò che il divario tra Nord e Sud Italia sarebbe stato colmato entro il 2020. Da quelle previsioni, per certi versi speranzose, sono passati ben quarantotto anni e poco sembra cambiato, se non la consapevolezza di come lentamente si sia avanzato per colmare questa lacuna.
Il professor Pasquale Saraceno (economista della Bocconi, morto nel 1991) analizzò il fenomeno adducendo il divario economico tra le regioni dell’Italia settentrionale e meridionale al disorientamento sociale, allo scarso sviluppo industriale a favore dei piccoli commerci e all’eccessiva burocrazia; nonché ai progetti infrastrutturali carenti, oggi come allora, soprattutto al Sud. Una verità amara che ogni nuovo governo del paese ha tentato di addolcire sia con interventi mirati e assistenziali con l’intento di offrire sostegni individuali ai cittadini e alle imprese, sia con altri concepiti per la riorganizzazione del tessuto economico nazionale favorendo le autonomie locali e regionali, affinché ogni realtà territoriale possa chiedere d’amministrare le proprie risorse economiche e dipendere il meno possibile dal governo centrale. Così diverse Regioni, pur non essendo a statuto speciale, hanno facoltà di chiedere la potestà legislativa per ottenere il controllo esclusivo su materie giuridiche la cui competenza costituzionale è già di pertinenza sia locale che statale; nonché di una parte di quella legislativa che oggi è di completa pertinenza dello Stato centrale.
Regioni come il Veneto, l’Emilia Romagna e la Lombardia sono favorevolmente rivolte a tale soluzione, in particolare alla possibilità di trattenere nelle loro casse fino al 90% del gettito fiscale proveniente dai propri residenti. Un ricostituente economico non indifferente, ma il riconoscimento di un tale status non solo porterebbe un impoverimento della casse erariali nazionali di circa settecento miliardi annui, ma investirebbe le Regioni a governare in autonomia molteplici aspetti di ordinaria e straordinaria amministrazione, tra cui: i rapporti internazionali, il commercio con l’estero, la tutela del lavoro, l’istruzione, valorizzazione dei beni culturali, trasporto, la finanza pubblica, oltre a poter chiedere il controllo di giurisdizione e norme processuali, alla giustizia di pace, alla tutela dell’ambiente, all’ecosistema e ai beni culturali. Tutte materie che attualmente sono di esclusiva pertinenza delle autorità centrali.
Anche una Regione come la Campania, malgrado non sia tra le più ricche, ha avviato l’istruttoria per ottenere l’autonomia differenziata per alcuni aspetti giuridico-economici, attirata dalla possibilità di poter gestire le proprie risorse finanziarie e fiscali. Una richiesta motivata dall’opportunità per i cittadini di fruire di maggiori servizi e con meno disagi.
Se da un lato un tale ragionamento (fatto salvo corruzione e ruberie locali) potrebbe essere encomiabile, dall’altro renderebbe più difficile l’aiuto dello Stato a quelle Regioni incapaci di autosostentamento. Così gli abitanti della Calabria, della Basilicata, del Molise e altre aree meno sviluppate si ritroverebbero catapultati in una condizione di disuguaglianza economica e sociale rispetto alle aree più ricche ed industrializzate del paese.
Un principio etico e morale poco accettabile per una nazione moderna; nonché un principio a forte rischio di anticostituzionalità con il pericolo d’allargare il divario tra le diverse aree del paese. Un ricorso massivo a tale strumento potrebbe, a lungo andare, spostare la sensazione d’appartenenza nazionale a quella regionale, ingranando un’evidente marcia indietro. Probabilmente non si ritornerebbe ai tempi in cui tra una giurisdizione all’altra esistevano i varchi doganali e il pagamento dei dazi, ma negli ultimi tempi si assiste alla trasmutazione dell’impossibile in realtà con il rischio che perfino la gabella di “un fiorino”, chiesta in continuazione da un caparbio impiegato di dogana nel film “Non ci resta che piangere” (con Massimo Troisi e Roberto Benigni), possa diventare un’angosciante realtà.
Mario Volpe
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