Pensando al mare, immaginando oltre l’orizzonte, per desiderare luoghi e terre lontane in cui la vita è trattata con il rispetto che merita, una profonda sensazione d’euforia e d’irrefrenabile voglia di libertà deflagrano impetuose anche nei cuori dei più timorosi; perché indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dalla ricchezza individuale e dal livello culturale, esiste il bisogno d’essere liberi come un impulso innato e comune a ogni essere vivente.
Un desiderio di cui l’uomo è tanto consapevole al punto da mettere in gioco la propria stessa vita, offrendosi al martirio di una guerra o solcando rotte di terra e di acqua per arrivare (parafrasando una nota serie televisiva di fantascienza), “all’ultima frontiera, dove nessun altro era mai giunto prima.” Ma purtroppo è sempre più frequente che si arrivi a quell’ultima frontiera senza vita. Una disperazione che spinge a superare quella linea d’orizzonte oltre la quale si spera nella libertà, nell’opportunità di un futuro il cui diritto è imprescindibili per tutti, sempreché non si muoia in mare, non si venga scaraventati fuori bordo, non si muoia di stenti sui pontili delle navi di ONG in attesa di un’autorizzazione di sbarco, o non si arrivi da cadavere spiaggiato insieme al fasciame divelto di una barca troppo vecchia per affrontare le onde. Onde che non solo ci restituiscono i cadaveri di uomini, donne, bambini sulle coste della speranza finita, ma ci sbattono in faccia la sofferenza di chi ha lo stesso nostro diritto alla vita. Una vita negata a tanti, forse a troppi fino a trasformare le azzurre acque del Mediterraneo in un cimitero senza fine.
Eppure, sulle coste della Calabria, un’ultima tragedia ha decretato la fine di settanta vite sacrificate alla libertà, alla speranza sotto gli occhi attoniti di chi vive nel comodo delle proprie case le tragedie degli altri. Di chi pensa d’avere la definitiva soluzione alla gestione del diritto all’esistenza, senza sentire vergona per ciò che accade, non tanto come esponente politici o di governo, ma semplicemente come essere umano. Di un essere, talvolta, capace di un cinismo disarmante come le affermazioni dell’attuale Ministro dell’Interno in cui condanna una disperazione, a suo dire immotivata, nel mettere a rischio la propria vita per fuggire da guerre, fame e violenze di ogni sorta, mentre si crogiola in una retribuzione da favolava pagata con il lavoro della gente comune, di quella stessa gente che gratuitamente –spinta dal solo senza di umana solidarietà– offre una coperta, una bevanda calda, o semplicemente una lacrima per chi affronta il pericolo senza arrivare alla meta.
Una meta ricalcata da nuove rotte dalla Turchia, attraverso le acque territoriali greche per giungere nello Stivale, dove voci gonfie d’inutile presunzione dettano soluzioni o impartiscono lezione di morale a chi da morto non può più sentire. Perché tutta quella gente che fugge via, che salta la Grecia o paesi comunitari limitrofi e punta verso l’Italia, non pensa affatto agli accordi e trattati europei che classificano le vite alla stregua di merce, ma sogna di ritrovare gli affetti, gli abbracci e i sorrisi dei fratelli, figli, mogli, mariti e amici che li aspettano un passo oltre la linea di quell’orizzonte che hanno raggiunto prima.
di Mario Volpe
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