Il supplizio di Tantalo di un liberale e riformista figlio del Manifesto di Ventotene è quello di un inquilino sempre con la valigia pronta perché non trova la sistemazione adatta, quella coerenza sturziana che sta nel passaggio dall’idea al fatto. Allora fanno giri immensi come dervisci che non trovano pace, alla ricerca del loro baricentro ideologico che possa dare sfogo agli intimi valori per cui si è al mondo. Un po' come è successo a Vincenzo Romano, oggi in Azione, che a lungo ha attraversato il periplo di un riformismo puro senza mai trovarlo, né nel Partito Democratico, esordendo come consigliere comunale da “duro e puro”, né come sfidante dell’apparato strisciante dei Dem, rappresentato da Michele Caiazzo (ci furono primarie tra i due infuocate per la segreteria del Partito), neppure come segretario di quel che restava di un covo giovane desideroso di un taglio con un passato opaco.
Il riformista è un fantasioso che si ribella, incline al frazionismo perché è sempre più avanti rispetto allo status quo. La sua lealtà espositiva è graffiante quando non diventa farraginosa. E non poteva che lasciare anche il Pd Romano(scelta sbagliata), abbassare le serrande di via Torino e consegnare nelle mani dei “nemici” le chiavi di una consorteria che ben poteva esser indispensabile per le future battaglie elettorali. Romano è un passionale, che non è agitazione sterile, direbbe Weber, cioè un romanticismo campato nel vuoto, ma dedizione appassionata ad una causa, al costo di sbatterci la testa. Romano aveva in testa di guidare la città,e ce l'ha ancora. Credeva che il suo percorso fosse pronto per la conquista intellettuale e morale di un popolo che viveva la fine di un ciclo di potere, quello di Lello Russo (che non poteva più candidarsi) e una sinistra smarrita, accovacciatasi tra le gambe di un grillismo ministeriale per uscire dalla tana dell’irrilevanza.
Ma Romano giocava e gioca da coscienza solitaria, con la sua loquacità parossistica, e credeva che non avesse bisogno di un’armatura sufficiente per andare all’agone e infatti perse. Non sapeva che oggi nessuno più ha le chiavi per aprire gli scrigni delle coscienze se non qualche irriverente e cazzuto personaggio di foggia antica. A nulla valsero i moniti di Lello Russo: “Non lasciare il Pd, non ti candidare a sindaco e vieni con noi che potrai avere spazio per le tue aspirazioni”. Niente da fare. Egotismo? Il riformista viandante è una crisalide che non diventerà mai farfalla, s’invaghisce di un’idea fino a rimanerne imprigionato.
Di lì un po' di fase sabbatica, buona per riflettere sugli errori e su come ripartire con un convitto veramente liberale e riformista. Segue i cinguettii di Calenda, che fa il bello e il cattivo tempo con un avveneristico fronte repubblicano, fin quando non si decide di fare un partito e lo chiama Azione dove confluisce un po' di tutto, dalla sinistra al centro alla destra. Un pout-pourrì versatile e piacione. Un viandante liberale e riformista come Romano non perde quest'occasione. La politica per la politica è il suo chakra spirituale. Apre una sezione a Pomigliano d'Arco e con posa ascetica si lancia in questo progetto, alla caccia di un cono luminoso da pop-star in disarmo.
Un’idea tutto sommato buona e prolifica di adesioni, come quella di Romano che lavora alacremente alla nuova creatura nutrendola con lievito culturale di persone capaci, perbene e con peso elettorale, fino alla chiamata alle urne, come candidato alla Camera dei Deputati con discreto risultato. In un contesto povero di cultura politica, Romano devia il corso delle cose dal loro andamento inerziale, organizzando kermesse culturali di rilievo. Nel frattempo nasce la liason con 1799 e un rapporto sempre più conviviale tra Romano e Russo. "Sono il vostro alleato più fedele" dice a Lello Russo.
Li unisce l’idiosincrasia per i comunisti, li separa l’idea che la politica si fa “con la legna che hai a disposizione” come diceva Craxi, e dunque anche col “nemico”. Ma non solo: li separa un gigantesco modo di allontanare le proprie tare ancestrali mettendosi al servizio di una causa comune, liberandosi dalla prigionia del solismo. In politica non ha mai pagato, la politica è una forma d'insieme, la più matematica delle equazioni tra causa ed effetto.
Sembravano alleati nella Grande Coalizione, il fronte riformista agognato. Romano congela i suoi tarli, antepone l'interesse suo a quello persino dell'unità del suo partito. Vuole fare il sindaco a tutti i costi, si sente un predestinato alla gloria. Ascolta le sirene del centrodestra e persino della combattuta sinistra, che gli offrono la cattedra più grande, giocando a perdere piuttosto che a contendere la vittoria all'avversario. Persino l'on. Paolo Russo un pò adirato gli ha sconsigliato di andare in solluchero a testa in giù. "Altrove si perde, non insistere" gli avrebbe quasi intimato.
Non sarà la traiettoria programmatica a mantenere rettilineo un agglomerato eterogeneo messo in piedi, che potrà soffrire qualche volta di ipertensione ideologica ma sarebbe sempre aperto ad accarezzare le proprie aspirazioni a tempo debito. Romano ha la compiacenza un pò altera di una razza fiera. Non ha fatto i conti con l’autorevolezza di Lello Russo, abituato a fare operazioni di eugenetica sul più ribelle e tumultuoso dei primi attori.
Dominare con intelligenza gli avvenimenti, diceva Aldo Moro, ma è come se l'avesse detto il socialista Russo. E' finita l'era narcisa delle appartenenze e di ambire per mandato divino a pennacchi sociali. Oggi c'è da fare una comunione cosmica con atomi sparpagliati. D’altronde, il politeismo di valori è sempre stata la stella cometa di un riformista viandante come Vincenzo Romano, che ora vede opaco il suo destino, in attesa di diventarne stabile inquilino o mercanzia da oblio. L'auspicio è che si ravveda e dia un freno ad ambizioni che in questa fase storica apparirebbero smodate. Ma, del resto, tutto è legittimo in politica quando si hanno cartucce da sparare.
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