"Dottore, mi hanno detto che ho la depressione atipica".
"Interessante, Giuseppe. E ti hanno detto cosa significa?".
"Sì, che oltre ad essere depresso ho l'ansia, che ho troppa fame a volte e che dormo tanto. Ah, e che talvolta non sono depresso affatto".
"E come ti fa sentire questa diagnosi?".
"Sono contento, perché finalmente mi hanno detto cosa ho".
"È quindi? Adesso cosa farai?"
Non sapeva cosa rispondermi. Il guaio, con i ragazzi in psicoterapia, è che cercano spesso una diagnosi per adagiarvisi su. Vi aderiscono, se ne fanno scudo e, quando li sproni ad insistere di più, a provare a sciogliere i nodi che si incontrano lungo il percorso, ti guardano come per dire "ma io sono così, che vuoi da me?". Per questo motivo non glielo dico mai, almeno non apertamente. È sempre un equilibrio difficile, con loro: devono sentire che li comprendo, che comprendo le loro sofferenze ma che non posso, non possiamo fermarci a questa considerazione. Tutti noi siamo qualcosa ma, se abbiamo un atteggiamento disfunzionale, dobbiamo sforzarci per imparare ad averne uno diverso. Uno che "funzioni". Ciò che si ha non può essere un impedimento ad essere ciò che si può, o ciò che si vuole. Poi, in certi casi le diagnosi sono soltanto caselle troppo strette in cui si provano a stipare le persone, senza alcun altra motivazione che un parcheggio comodo per il mondo, più che per il parcheggiato. Come questa, in fondo: un fritto misto di sintomi che nulla ci dicono della personalità, del carattere, della persona. O che, in fondo, è solo una diagnosi di comodo e sbagliata, perché troppo frettolosa. E che, forse, non è depressione neppure, ma qualcos'altro. "
"Sorrido sempre quando si parla di qualcosa che è atipico, sai? Perché atipico vuol dire che non è quella cosa, ma un'altra, un'altra di cui non si sa ancora il nome. Io invece il tuo nome lo conosco: ti chiami Giuseppe e so perfettamente cosa sei".
"Uno scassacazzo, vero?", sorrise.
"Sì, il mio solito e tipico scassacazzo"
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