"Dottore, sento ancora le voci”.
Me lo disse sulla porta, quasi a togliersi il peso. Sì, Carlo le sentiva davvero e le sentiva ancora. E le avrebbe sentite per tutta la sua vita, temo, poiché era, la sua, una faramacoresistenza vera, non di quelle figlie della svogliatezza o della incuria. Quelle, tanto per capirci, del primo farmaco antipsicotico che capita sotto mano, o che il paziente decide che gli farà male, e quindi di lasciarlo nel cassetto. I farmaci sanno essere strani e dispettosi, talvolta: tendono a non funzionare se non sono assunti.
Ricordo la prima volta che venne da me. Era insieme alla madre, che apriva la strada quasi fosse il suo bodyguard; lui indossava gli occhiali scuri ed un cappello, sperando forse che i suoi ignoti persecutori non lo riconoscessero, mentre il padre chiudeva la fila molto distante. Era talmente lontano da loro che avevo deciso che fosse un passante occasionale, uno dei tanti personaggi che popolano questo palazzo senza che io ne sappia niente. Doveva essere effettivamente molto estraneo a questa diade che si era presentata nel mio studio dacché si accorsero della sua assenza soltanto qualche minuto dopo che si erano accomodati. Se ne accorsero anche con un certo disappunto, e quasi mi consigliarono di lasciarlo dov’era, fuori la porta, tanto le carte e i soldi li avevano loro. A cosa sarebbe servito, in fondo? Sarei stato dietro a tutto questo magnifico cinismo monicelliano se solo fossimo stati davvero in un film (non lo eravamo, vero?), ma decisi di alzarmi e di andare ad aprirgli la porta.
“Avrebbe potuto bussare”, gli dissi dopo essermi scusato dell’equivoco.
“Stavo bene anche fuori, non si preoccupi”. Meglio, avrei detto io, ma non era mio l’onere della scelta delle parole.
Carlo aveva provato quasi tutti i farmaci conosciuti, senza che nessuno avesse mai fatto effetto, neppure minimamente. In compenso, era riuscito a collezionare tutti gli effetti collaterali possibili, quelli improbabili ed alcuni da applauso. Erano però, lui e la madre, quei pazienti che sopportavano tutto; anzi, se un farmaco fa male vuol dire che sta facendo qualcosa, ed allora se ne potrebbe aumentare la dose nella speranza faccia più male. Erano venuti da me sperando che io cacciassi il farmaco dal cilindro; ma, appurato che la diagnosi era corretta ed i tentativi era stati fatti, praticamente tutti, non restava che inventarsi qualcosa. E questo qualcosa doveva andare nel senso del miglioramento della qualità di vita, della cura della persona: una persona che avrebbe dovuto sopravvivere al suo disturbo, in quanto l’obiettivo non doveva essere di uccidere l’ospite per eliminare il parassita.
“Carlo io non posso curarti: posso solo cercare, facendo tutto quanto il mio potere, per farti stare meglio”.
“Se gli dice così lo deprime. È vero che il dottore ti ha depresso, Carlo? Possiamo almeno usare un antidepressivo, adesso, in aggiunta?”.
“No, ma potremmo provare a fare il gioco del silenzio. Lei cominci a giocare con suo marito, che vedo allenato, mentre io e Carlo parliamo un pò”.
Tra le voci continue, quelle reali e quelle allucinatorie, trovai un ragazzo mite, che avrebbe voluto lavorare nel negozio del padre, pranzare a casa, fare un riposino e poi tornare a lavorare. Mai aggressivo, neppure quando le voci glielo intimavano e gli dicevano che il lattaio lo avrebbe ucciso, e che quindi lui avrebbe dovuto fare la prima mossa. Sorridente, a modo suo, un gigante buono perso chissà dove, in quale terra di mezzo. Gi spiegai che dovevamo provare la via dell’associazione di diversi farmaci, che avrei cercato di non fargli avere troppi effetti collaterali e che ci voleva tempo e pazienza. Gli dissi anche che sarebbe stato opportuno frequentare un centro diurno, un gruppo terapeutico riabilitativo, e che le voci erano un commento alla vita ma che la vita, quella vera, era fuori della sua testa. Una vita era possibile, se solo se gliene avessero dato la possibilità.
“Qui c’è il mio numero, e questa la mia mail. Mi farebbe piacere che fossi tu a farti sentire, non mamma, per farmi sapere come stai. Va bene?”.
“Va bene…”, rispose la madre spazientita, per poi aggiungere che Carlo non si sapeva spiegare bene ed era comunque troppo timido per farlo.
“Vorrà dire, allora, che l’antipsicotico lo aumenterò a lei, perché da me vige la regola che mi chiama chi assume il farmaco”. Il marito accennò, sprofondato nel divano sul fondo a fare da decorazione, un timido sorriso. Ma forse era una paresi.
All’incontro successivo, Carlo era davanti, la madre ed il padre dietro. Il padre più indietro, ma questo era ovvio. Appena seduto, tolse gli occhiali ed il cappello: ci teneva a mostrarmi il suo nuovo taglio di capelli, che era molto piaciuto nel gruppo che frequentava. Aveva forse perso qualche etto, e pareva complessivamente più disteso.
“Lo sa che oggi è il mio compleanno, dottore?”.
“Tanti auguri, Carlo. E le voci cosa ti dicono?”.
“Le voci stanno intonando tanti auguri a te”.
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