Dopo la vittoria alle regionali di Lazio e Lombardia, e a distanza di cinque mesi dal voto popolare che ne ha sancito la conquista della maggioranza in parlamento, l’Italia può dirsi oggi un paese di destra? La domanda, pur suonando un pò retorica, è legittima e se la fanno in molti. Certo è che cinque anni fa le regioni di (centro)sinistra erano quindici, mentre oggi sono solo quattro. Il che, insieme col dato nazionale, lascerebbe intendere che l’elettorato abbia fatto una scelta netta.
Se però guardiamo le serie storiche degli ultimi anni, vediamo che nei momenti incerti l’elettorato italiano mostra una certa propensione al cambiamento drastico. Avvenne nel 1994, con la vittoria di Berlusconi, in un periodo di profondo spaesamento collettivo. Lo stesso fu nel 2014 con il PD di Renzi il rottamatore. E nel 2018 col Movimento Cinque Stelle. Questi tre episodi hanno un comune denominatore: l’opzione dell’elettorato per soggetti politici che mai avevano avuto maggioranze e responsabilità dirette di governo
La recente virata a destra perciò sembra si possa inquadrare più in un fenomeno ciclico del genere, piuttosto che in una consapevole opzione patriottico/sovranista. Anche perché la destra della Meloni, oltre qualche sentimentalismo, della destra tradizionale italiana, quella cioé che abbiamo conosciuto dal dopoguerra alla svolta finiana di Fiuggi, conserva ben poco. A caldo, dopo le politiche, alcune testate estere avevano titolato allarmisticamente che in Italia stava per andare al potere un partito con radici post-fasciste (così si era espresso il New York Times, ma non solo). A volo d’uccello invece, e senza sottilizzare troppo, pare che il successo della destra, corroborato ora delle regionali lombarde e laziali, non sia ascrivibile all’incasso politico sulle proposte di temi tradizionali, soprattutto in materia di diritti della persona. Perché su questi argomenti il governo Meloni praticamente non si è speso. Il quadro è completato da un atteggiamento, nei rapporti internazionali, che vede la premier muoversi più in continuità con le pregresse esperienze governative, piuttosto che con l’intenzione di affermare una linea concertata con le forze politiche sovraniste, populiste, autoritarie e nazionaliste, presenti nelle altre nazioni del continente.
Perciò, per quanto paradossale possa apparire, la svolta a destra degli italiani (ma sarebbe meglio dire, di quei non molti che a votare ci sono andati) manifesta parecchi tratti in comune con la precedente sbandata verso il Movimento di Grillo. Da cui il partito della Meloni eredita più che altro una parvenza di novità rispetto agli altri attori politici. E con cui condivide il rischio di ripercorrerne rapidamente la parabola ,appena dovesse concretizzarsi l’incapacità di fornire le risposte che ci si attende. Anche perché l’esercito degli astenuti, quelli che pur di non votare l’attuale sinistra hanno preferito restare a casa mettendo inconto di far vincere gli avversari, può sempre tornare in campo, se adeguatamente motivato. Come nel
2018, quando dopo anni di costanti flessioni, le percentuali di votanti si riportarono a livello di quelle del
dopoguerra, decretando la vittoria di Di Maio e company tanto clamorosa quanto effimera.
di Francesco Cristiani - Avvocato
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