Morire per un acquazzone è un drammatico paradosso, soprattutto se ci si sofferma a pensare che l’acqua è fonte di vita, che orde di migranti approdano sulle nostre coste dall’Africa subsahariana non solo per scappare dalla fame e dalle guerre, ma anche per sfuggire alla sete e alla siccità.
Eppure, dalle nostre parti di acqua si può morire; è successo dovunque in Italia all’arrivo delle prime piogge che alimentano fiumi, torrenti e smottamenti che abbattono case, automobili, negozi e la vita di chi, senza colpa, si è trovato sotto la lente del destino. Un destino che, dopo aver scatenato gli elementi della natura, si è preso la beffarda briga di riscaldare la scena del disastro con i raggi del primo sole, quasi a voler dimostrare a noi miseri esseri umani che nulla è soverchiante rispetto alle forze indomite della natura. Tragedie che si ripetono seguite dalle riflessioni postume delle amministrazioni di turno, che dopo il commiato lanciano sterili polemiche scartabellando alla ricerca di responsabilità che si perdono nella notte dei tempi e difficilmente perseguibili.
Poi ci sono le vittime, i morti, quelli che hanno perso casa e bottega e i bullizzati dagli esperti meteorologi, geologi e ambientalisti improvvisati che attaccano con il tormentone del cambio climatico, delle allerte meteo intempestive, dell’abusivismo e di altre accuse indiritte come se la colpa fosse di chi sotto la furia dell’acqua ci è rimasto secco. È accaduto in Calabria nel 1951 con sessantotto morti, a seguire nel Polesine, nel 1954 in provincia di Salerno con un alluvione record che ha spazzato trecento venticinque vite, a Firenze nel 1966, a seguire negli anni nel Biellesse, a Trapani, in Valtellina, nel Sarno con centosessanta vittime, a Soverato, in provincia di Palermo e tante altre di cui si è persa evidenza fino all’ultima di Ischia dove il nubifragio ha devastato il comune di Casamicciola inondandolo di fango. Ma non è stata l’unica tragedia del clima nel 2022, già nel mese di settembre nelle Marche un’alluvione ha provocato, per uno strano scherzo del fato, dodici vittime lo stesso numero dei morti registrati nell’Isola Campana.
Dopo la conta dei danni, la sfilata drammatica di bare –di cui quattro bianche– e il rimpallo delle responsabilità, parte la giostra delle accuse sull’abusivismo edilizio e delle migliaia di domande di condono su territori che non avrebbero mai dovuto ospitare ville, case o baracche degli attrezzi diventate con il tempo cottage di montagna. Certamente il destino avverso ha la sua responsabilità, ma l’incuria dell’uomo si diverte a dare una mano alle tragedie. A partire dal lassismo delle responsabilità, dall’arroganza di fare scempio del territorio, all’edificazione di villette in economia che si sgretolano alle prime piogge, senza contare la poca o scarsa manutenzione (spesso per motivi di danaro) che i proprietari dedicano alle abitazioni. Dietro le quinte della tragedia, di ogni tragedia non solo quella di Ischia esiste la superficialità dei comportamenti, la bonaria arroganza di voler perseguire standard di vita non sempre all’altezza delle proprie possibilità e uno sfruttamento criminale del territorio.
Non dimentichiamo che l’isola ha subito per anni l’incursione della criminalità organizzata, che con i suoi metodi persuasivi ha corrotto o minacciato amministratori per chiudere un occhio sull’edificazione abusiva di faraoniche residenze arroccate sui punti panoramici più belli ed è stata un’inchiesta del quotidiano Repubblica nel 1993 a segnalare la ferocia con cui la camorra aveva preso possesso dell’isola. Oggi di quelle ferite restano, oltre alle domande inevase di condono edilizio, i postumi di un delirio di un possesso del territorio che in realtà non ci appartiene, ma di cui dovremmo essere soltanto responsabili custodi.
Mario Volpe
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