Tra il 2018 e il 2020, si è assistito non solo ad un generale calo delle presenze nei centri di accoglienza, ma anche ad una concentrazione di queste ultime nei centri situati nelle grandi città.
Questa centralizzazione può certamente avere dei vantaggi nell’inclusione di chi arriva nel nostro paese, soprattutto per via della maggiore vicinanza dei servizi e delle più numerose opportunità lavorative. Tuttavia anche le aree più periferiche del territorio nazionale possono dare un importante contributo, soprattutto per l’inclusione a livello sociale.
In Italia i comuni sono divisi in 6 categorie a seconda della presenza o raggiungibilità dei servizi di base. Questi ultimi sono identificati tramite 3 parametri: un’offerta scolastica superiore completa (costituita da almeno un liceo, un istituto tecnico e un istituto professionale), almeno un ospedale dotato di tutte le qualificazioni per gestire le emergenze, anche legate a patologie di elevata complessità, e una stazione ferroviaria di tipo silver.
Secondo questa classificazione, ci sono innanzitutto i comuni “polo”, ovvero i centri urbani dotati di tutti i servizi essenziali. Questi possono essere costituiti da un solo comune (come nel caso delle città) oppure essere costituiti da più comuni confinanti (in questo caso si parla di “polo intercomunale“). Seguono i comuni “cintura“, situati in aree peri-urbane, comunque caratterizzati da servizi essenziali accessibili (a meno di 20 minuti di distanza).
Esistono poi le cosiddette “aree interne“, ovvero tutti i territori distanti dai servizi di base.
Quasi 4.200 comuni (ovvero oltre la metà del totale) ricadono nelle aree interne. Questi territori coprono il 60% della superficie nazionale, e sono abitati da circa 13 milioni di persone.
Le aree interne si dividono a loro volta in comuni “intermedi” (se la distanza dai servizi è superiore ai 20 minuti ma inferiore ai 40), “periferici” (tra i 40 e i 75) e “ultraperiferici” (se supera i 75 minuti, di solito nelle isole o nei territori montani).
Sono 1.975 i comuni interessati dal sistema dell’accoglienza (2020), ovvero il 25% del totale.
La categoria “polo” racchiude anche la classe “polo intercomunale”, mentre la categoria “altro” comprende sia i comuni non identificati in classi che quelli in cui è in corso l’identificazione. Per “posti disponibili” si intende la capienza di ciascun centro, indipendentemente dal fatto che in quel momento i posti siano occupati o meno. Sono state considerate le capienze di tutti i tipi di centri: centri di accoglienza straordinaria (Cas), centri di prima accoglienza (Cpa) e centri di accoglienza ordinaria (Sai) e specificamente i centri attivi al 31 dicembre, con l’eccezione dei Sai (3 luglio).
In oltre la metà dei casi si tratta di comuni cintura, che però ospitano circa il 28% dei posti disponibili. Ma è nei comuni polo che si registra la capienza più elevata (un totale di 44.333 posti, pari al 43,8% del totale). Una quota decisamente più bassa si trovava invece nei comuni ricadenti nelle aree interne. Il 24% dei posti disponibili nei centri di accoglienza si trovano nelle aree interne (2020).
Parliamo di 24.347 posti. Di questi, più della metà (14,7%) era registrata nei comuni intermedi, mentre appena l'8,4% si trovava nei comuni periferici, e meno dell'1% in quelli ultraperiferici.
Risultano particolarmente numerose le aree interne interessate dal sistema dell'accoglienza nel meridione, dove sono anche più numerosi i centri abitati più distanti dai servizi (in Basilicata ad esempio costituiscono aree interne il 96,2% dei comuni). Mentre nel centro-nord prevale l'accoglienza all'interno di centri abitati di dimensioni maggiori. In Lombardia e Veneto, ad esempio, è particolarmente elevato il numero di comuni polo e cintura sul totale (oltre il 60%).
Nel 2018, il 42,5% delle presenze giornaliere era registrato in centri di accoglienza situati nei comuni polo. Una cifra che appena due anni dopo è cresciuta di oltre 4 punti percentuali, attestandosi al 47%. Mentre si sono ridotte lievemente le quote di presenze per le altre tipologie di comuni. Nello specifico, i comuni cintura accoglievano il 30,2% delle persone nel 2018 e sono passate, nel 2020, al 28,3%, mentre i comuni periferici sono passati dal 15,9% al 14,6% e quelli ultraperiferici dall'1,4% allo 0,9%.
Particolarmente elevata risulta poi la quota di persone ospitate all'interno delle città con più di 200mila abitanti, che nel nostro paese sono 16, rispetto ai centri di dimensioni inferiori.
Il 18,2% delle presenze giornaliere nei centri di accoglienza sono registrate nelle grandi città (2020). Anche in questo caso, parliamo di un aumento di 4 punti percentuali. Nel 2018 infatti questo dato si attestava al 14,2%.
L'accoglienza può comportare vantaggi e svantaggi specifici, a seconda che avvenga all'interno di un contesto urbano o in un territorio più piccolo e periferico. La città offre più lavoro e servizi, ma meno inclusione sociale.
I grandi centri urbani ad esempio sono solitamente caratterizzati da migliori opportunità di inserimento lavorativo, nonché da una maggiore disponibilità di servizi. Allo stesso tempo però si tratta spesso di ambienti più anonimi. È infatti importante sottolineare che l'accoglienza non si basa soltanto sulle condizioni materiali, ma anche sull'inclusione sociale.
Da questo punto di vista l'accoglienza nei piccoli centri può rappresentare un modello particolarmente interessante. Infatti i comuni più piccoli sono caratterizzati da reti sociali più forti, che possono garantire una più facile inclusione a livello umano.
Inoltre i comuni periferici e soprattutto quelli ultraperiferici sono spesso territori marginalizzati, dove è in atto un progressivo spopolamento per via dello spostamento dei giovani verso le aree urbanizzate. Un fenomeno che genera poi un circolo vizioso rispetto alle opportunità di impiego e alla disponibilità di servizi.
L'accoglienza in queste aree quindi non solo può offrire maggiori opportunità di inclusione sociale a chi arriva, ma essere utile per la ripresa dei comuni stessi.
Purché ovviamente si tratti di concepire progetti ben articolati e non soltanto di insediare i centri in aree più periferiche, in assenza di servizi e di opportunità. In questo senso potrebbe essere decisivo il ruolo dei comuni, che possono aderire al sistema ordinario Sai, che oggi continua purtroppo a rimanere minoritario. Le amministrazioni locali potrebbero infatti pianificare politiche pubbliche territoriali volte all’inclusione delle persone migranti, in taluni casi puntando persino al ripopolamento di aree oggi spopolate, a vantaggio dell’intera collettività.
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