Avvocato Rosa Jessica Vitagliano: “Madre o donna in carriera, è necessaria una scelta?”
Parità di diritti tra uomini e donne sul lavoro, saranno più di vent’anni che ne sentiamo parlare come una cantilena, ma di concreto cosa è stato realizzato ?
La nostra società è strutturata in modo tale che gli uomini possono dedicarsi anima e corpo al lavoro, alla politica, o a qualsiasi altro interesse, anche se hanno figli, mentre per le donne sembra non ci sia mai il momento giusto per dedicarsi al lavoro, alla politica, all'impegno sociale, al perseguimento di un interesse. Le donne sono considerate un rischio per i datori di lavoro perchè se non hanno figli potrebbero tuttavia averne in un prossimo futuro; sono considerate persone inaffidabili, anche se hanno figli piccoli o adolescenti perché il loro interesse primario sarà sempre la prole con inevitabili conseguenze in ambito lavorativo.
Forse è per questa visione ottocentesca condivisa ancora da troppi uomini italiani, specie a capo di aziende o in politica, che l'organizzazione del lavoro è così ostile alle mamme lavoratrici. Si investe così poco nei servizi e, gli orari delle organizzazioni politiche e sindacali sono così difficili da conciliare con la vita e le responsabilità familiari. Se si escludono le tiritere e le chiacchere inutili di cui sentiamo sempre parlare, si riscontra che nessuna politica attiva è operata per favorire l’ingresso e, soprattutto, la tenuta delle donne nell’ambito del lavoro. Bisognerebbe pensare ad un’altra società in cui anche ai padri venisse data la responsabilità di occuparsi dei figli, con modelli organizzativi più ragionevoli.
Quella innanzi descritta non è l’aspirazione utopica di una professionista in carriera, ma semplicemente la realtà riscontrata soprattutto nei paesi nordeuropei, dove non a caso si vedono più donne, anche mamme, in politica e a dirigere aziende, e dove i padri prendono qualche mese di congedo per stare con i figli piccoli.
In Italia invece c'è chi non ha mai fatto nulla per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare. Molte libere professioniste o artigiane, per necessità o scelta, si trovano a dover lavorare durante la gravidanza ed anche dopo il parto.
Donne e uomini hanno un trattamento diversificato, la discriminazione di genere esiste ancora in Italia ed è molto radicata. Nonostante il principio di pari opportunità tra uomini e donne sia espressamente sancito dalla carta costituzionale, le conquiste del “ gentil sesso” sono lente ed imbarazzanti per un paese che si professa democratico e culturalmente avanzato.
In effetti, è vero che gradualmente, nel corso degli anni, siano stati compiuti significativi passi in avanti nel riconoscimento alla donna del posto che merita nella società ma. ciò non vuol però dire che l’obiettivo della parità di genere possa definirsi raggiunto. Se, infatti, da un lato donne e uomini hanno teoricamente diritto allo stesso trattamento giuridico, dall’altro lato, non sempre questo principio trova attuazione nella realtà dei fatti.
Per fare un esempio: consideriamo la condizione della donna lavoratrice. Statisticamente, il livello di disoccupazione è molto più elevato rispetto a quello degli uomini; quando, poi, una donna viene assunta, essa è assoggettata a forme contrattuali precarie e a termine pur svolgendo la stessa attività degli uomini con il “posto fisso”. Tale situazione ruota soprattutto attorno al “problema” della maternità: posto che la donna può diventare – per sua stessa natura – mamma e, di conseguenza, può esercitare tutte le facoltà ad essa connesse, i datori di lavoro non le accordano fiducia. Tale disparità di trattamento purtroppo non s’inverte in relazione alle posizioni di vertice della pubblica amministrazione o dei grandi gruppi imprenditoriali.
Le donne, infatti, incontrano molte più difficoltà nel far prevalere la meritocrazia e ottenere i posti apicali e, quando li raggiungono, faticando il triplo di un uomo nella migliore delle ipotesi, ricevono remunerazioni non adeguate al tipo di lavoro svolto.
L’assenza di politiche finalizzate a favorire non solo l’ingresso ma anche la permanenza delle donne nel mondo del lavoro, costituisce uno dei mali atavici della società italiana che di fatto ne sta determinando un impoverimento demografico, economico e culturale.
In effetti, è proprio a causa di tutte queste difficoltà e discriminazioni che le donne incontrano nel mondo del lavoro che scelgono la maternità sempre più tardi (in Italia l’età media al parto delle donne raggiunge i 32,4 anni) e fanno sempre meno figli (1,25 il numero medio di figli per donna). Inoltre, esse devono spesso rinunciare a lavorare a causa degli impegni familiari (il 42,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli, risulta non occupata), con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali, oppure laddove il lavoro sia stato conservato, molte volte si tratta di un contratto part-time (per il 39,2% delle donne con 2 o più figli minorenni). Solo poco più di 1 contratto a tempo indeterminato su 10 tra quelli attivati nel primo semestre 2021, è a favore delle donne. Il gap descritto persiste anche a livello salariale ove si riscontra che nel mondo del lavoro, alla soglia dei 30 anni, gli uomini mostrano una traiettoria salariale ancora in crescita; quella femminile, per contro, si appiattisce. Facilmente comprensibile come il reddito della donna all’interno di una famiglia – essendo il più basso - sia sacrificabile, generando un circolo vizioso che favorisce molto spesso l’esclusione femminile dal mercato del lavoro. Le donne, quindi, a differenza degli uomini, sono ancora in notevole svantaggio soprattutto quando, nei loro orizzonti di vita prende corpo la decisone di avere un figlio.
Insomma, allo stato la scelta della maternità sembra spesso un’opzione alternativa alla carriera e, spesso, al solo lavoro, inoltre, per alcune categorie di lavoratrici, avere un figlio e lavorare, costituisce una vera chimera. In particolare, il mondo delle partite iva o delle libere professioni, in cui non vi sono quasi mai orari predefiniti e tutele sociali, si riscontra l’assenza dei minimi diritti da riconoscersi alle madri lavoratrici le quali, non hanno diritto ovvero ricevono tutele limitate in relazione all’accesso ad indennità per congedo paternità/maternità per lavoratrici dipendenti e iscritte alla Gestione Separata; Indennità per congedo parentale per lavoratrici e lavoratori dipendenti ; Indennità per i riposi giornalieri; Congedo per i padri
Per le libere professioniste l’indennità di maternità non impone un’obbligatoria astensione dal lavoro e, il congedo parentale è invece sensibilmente ridotto sia in termini soggettivi che oggettivi: ha diritto a beneficiarne solo la madre e per un periodo massimo di 3 mesi entro il primo anno di vita del bambino. La lavoratrice iscritta alla Gestione Separata ha invece diritto a un periodo massimo di 6 mesi entro i primi tre anni del bebè (almeno così, da quanto si è potuto verificare dal portale INPS). Non sono poi riconosciuti riposi giornalieri per l’allattamento.
In termini economici poi, le indennità offerte appaiono veramente irrisorie, rispetto alle lavoratici dipendenti. Invero in alcuni casi sono previsti sussidi per sostenere i costi di baby sitting o asili nido, ma per il resto non si registrano apparentemente interventi strutturali per conciliare vita familiare e lavoro ed infatti, una volta che il bebé avrà superato i primi 5/6 mesi di vita (quelli, forse, meno problematici per la mamma a casa dal lavoro), arrivano le prime criticità in quanto, la progressiva ripresa dell’attività lavorativa costringe la mamma a ricercare nidi, baby sitter o, nei casi più fortunati, nonni disponibili a sostituirla e ciò anche nel periodo estivo in cui le mancate tutele delle libere professioniste, le pone dinanzi alla scelta d’inserire il figlio in un campus estivo ovvero rinunciare in tutto o in parte al proprio lavoro.
Qualche segnale positivo, e solo limitatamente contenibile per alcune professioni, è il ricorso allo smart working ma come noto, alcune categorie di professionisti devono, per forza di cose, vivere e presenziare sul luogo di lavoro. Il quadro cupo descritto, sembra individuare timidi spiragli di luce in limitati interventi della Commissione Europea ed il Parlamento Europeo mediante interventi finalizzati a garantire una buona copertura dei servizi di assistenza, combinando costi e flessibilità al fine di ridurre il divario occupazionale e favorire l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare ovvero migliorare l’accesso ai meccanismi per conciliare attività professionale e vita familiare ed aumentare il numero di uomini che si avvalgono di congedi per motivi familiari e di modalità di lavoro flessibili.
In conclusione, si può affermare senza tema di smentite che la donna è il vero pilastro della società moderna, sulle sue spalle pesano ininterrottamente ed allo stesso tempo le difficoltà del mondo del lavoro quadruplicate rispetto all’altro sesso e la gestione della famiglia; ma la società invece di preservare questa risorsa e di conseguenza preservare se stessa, pone le donne molto spesso nella condizione di scegliere tra un campo o l’altro, con gravi conseguenze in termini di equilibri sociali, discriminazione e natalità. In realtà il mondo moderno non può permettersi di porre la donna ai margini e pertanto, occorre pensare una volta per tutte ad una società integrata che favorisca una volta e per sempre l’inserimento della donna, e di conseguenza la natalità e la famiglia e ciò, attraverso l’offerta da parte dello Stato o di enti privati convenzionati di servizi di assistenza alla prima infanzia accessibili a tutti, che garantiscano flessibilità di orari da un lato e l’aumento della produttività e lo sviluppo generale e delle singole categorie di lavoratrici.
Un altro passo avanti che dovrebbe essere attuato dalla società odierna per scrollarci di dosso definitivamente lo stigma di "Angelo del focolare", sarebbe quello di dare una dignità ed importanza maggiore al ruolo di paternità. La genitorialità si apprende facendo i genitori e, dunque, solo esercitando tale ruolo una figura matura e affina le proprie competenze. Pensare che un padre non sarebbe in grado di occuparsi di un bambino è una conclusione fondata su un pregiudizio che confina alla diversità e alla mancanza di uguaglianza nel rapporto che sussiste tra i genitori.
Il papà che "aiuta" la propria compagna con la prole, molto spesso è ironicamente definito "mammo" proprio perché culturalmente il lavoro di cura per i figli spetta alla Mamma. Questo stereotipo culturale, va necessariamente abbattuto attraverso politiche attive volte a favorire il ruolo di responsabilità del padre. Mentre per la situazione dei padri dipendenti, qualche tutela in questo senso è prevista, per i liberi professionisti non è contemplato neanche il congedo parentale per i neopapà. È ancora lunga la strada da percorrere in questo senso.
Una società che si apre alle esigenze di tutti e soprattutto di chi crea e favorisce la vita è destinata a progredire ed a superare le difficoltà. Le società che invece favoriscono l’appiattimento delle rendite di posizione sono destinate alla stagnazione e quindi al decadimento. In un periodo di scelte è bene riflettere: da che parte vogliamo porci?
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