“Perchè?”
Questa semplicissima domanda la lasciò spiazzata, come se fosse, nella sua testa, una cosa talmente ovvia da non necessitare di alcuna spiegazione. Non se lo era mai chiesto, evidentemente, e nessuno aveva mai provato a farlo per lei.
Era una ragazza molto bella, dai lineamenti eleganti e dai colori stranieri. Sarebbe potuta nascere in un qualsivoglia paese freddo dell’Est, ma era invece nato in un popoloso paese caldo della nostra provincia. Oltre a non averne l’aspetto, non ne aveva neanche i modi; non che ci si debba aspettare un comportamento particolare, e non che questo significasse alcunché di male. Era solo una piccola e dolce aliena che era capitata da queste parti come capitano le cose e le persone. Succedono, e basta.
Studiava , ed era anche molto brava; e brava lo era stata sempre in ogni cosa avesse fatto fino ad ora. Se non avesse avuto un fratello, avresti detto che era la sindrome del figlio unico ad affliggerla; da figlio unico, e non per scelta mia e dei miei genitori, devo però confessarvi che tale sindrome affligge più gli altri che il solingo, che non si pone il problema e che non conosce l’alternativa. Pertanto, in una parola, non può fare confronti. Era brava in tutto, dicevo, e cantava e suonava e sapeva ballare; ed era bella, elegante e sapeva parlare, con una voce a tratti esitante che non doveva avere gli occhi per guardare ed orecchie per ascoltarsi, così da non poter trovare quella rassicurazione che cercava nell’evidenza. La realtà si interpreta come i sogni, ed i sogni sono difficili da interpretare per i sognatori.
Mi faceva tenerezza, più che per la sua giovane età per quella necessità di primeggiare che conoscevo sin troppo bene. Che ricordavo sin troppo bene, a voler essere precisi, perchè se c’è una cosa che il tempo ha portato con se’ è stato permettermi di giocare in una categoria in cui non esiste il confronto, e non per mancanza di avversari. Ma questa è un’altra storia. Mi faceva tenerezza, dicevo, e me ne faceva ancora di più quando mi raccontava che la madre le faceva provare gli abiti prima di uscire, per convincerla che era deliziosa e che poteva conquistare il mondo. Il guaio era che il suo ruolo era quello della principessa, e lei sapeva di non avere un regno su cui regnare.
Tutto un già visto, in terapia come nella vita, in fondo: così potrebbe sembrare sulle prime, o potrebbe sembrarlo a chi in terapia non c’è mai stato, né da un lato né dall’altro. I disturbi sono tutti uguali, ma ogni paziente è paziente a modo suo. Pertanto, quello che senza alcuno sforzo avremmo potuto diagnosticare come un disturbo di personalità di cluster C (insieme a qualche altra cosa, che non vale neanche la pena di dire), nel caso di Erste (perchè l’avevano chiamata proprio così!) era il suo problema, ed il suo problema soltanto.
Nulla era mai abbastanza, e tutto ciò che le riusciva bene ed eccezionalmente facile non poteva andare bene, perché si sarebbe potuto fare meglio. Il sacrificio è la misura del successo, aveva tatuato sul polso sinistro: glielo avevano fatto fare i suoi genitori, quasi un motto di famiglia. Che poi, erano tutti geni intorno a lei? No, non direi: era circondata da persone comuni o pseudo tali che si salvano come possono, mostrandosi al meglio e facendo finta di essere eccezionali in questa loro abusata normalità. È l’insidia del primeggiare, bellezza: ad ogni insicurezza corrisponde un antagonista immaginario pronto a sfruttare la nostra debolezza per arrivare primo.
Primo, come se tutto fosse una gara. Un gara in cui non sembrano esserci secondi posti, perchè il secondo è il primo dei perdenti. Perchè i perdenti esistono, ed è il loro un mondo di infamia. Sbagliereste a credere che, per converso, quello dei primi sia un mondo di lodi: se non vi è alternativa al vincere, la vittoria non porta con sé alcun premio, né alcuna soddisfazione. La vittoria dei condannati alla vittoria non ha piacere: porta solo con se’ il peso di queste aspettative di cemento, costruzioni così strette e spoglie da sembrare loculi claustrofobici proprio come certi pensieri, certe paure, certe situazioni.
Quelle stesse che si rifuggono, che si prova ad evitare nascondendoci, sottraendoci, restando immobili senza pensare che questa angoscia ce la portiamo dietro come la lumaca il suo guscio; ma è troppo pesante, e possiamo trascinarla solo entro i limiti della nostra casa, quest’altro contenitore di poco più grande che è invaso da queste guardie armate, l’esercito delle aspettative che ha la faccia di mamma e papà, anche quando mamma e papà ne sono inconsapevoli, anche quando mamma e papà non sono colpevoli, anche quando mamma e papà sono vittime essi stessi di questa eredità familiare che si trasmette più di una malattia genetica e che non viene trattata, drammaticamente troppo spesso, perchè assume le fattezze, della normalità, del vanto, del…
“Perché non c’è alternativa, Dottore”, lo diceva sempre con la “d” maiuscola, in segno di un rispetto che doveva esprimere, per non essere in difetto.
“Dammi del tu da oggi in poi, per favore. Non siamo poi così diversi io e te, sai?”.
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