“Dottore, sto male”.
Sì, potrebbe cominciare così un incontro, e talvolta succede, soprattutto le prime volte. Succede perché il dolore è una moneta di scambio: è un modo come un altro per avvicinarsi all’altro o per far sì che l’altro si avvicini a te. Il dolore è come offrire uno fetta di pizza, talora. Il dolore però, a differenza della pizza, è un oggetto strano: chiaro e nitido nella mente di chi lo prova (perché il dolore risiede nella mente in realtà, anche se dichiara domicilio altrove) ma una vaga e misteriosa entità in quella del nostro interlocutore. Sì, è proprio così: il dolore per essere compreso deve essere spiegato. Per comprensione intendo la concreta possibilità che un altro può avere di avvicinarsi al nostro stare male, e quindi a noi. Comprendere è condizione necessaria, ovviamente, ma non sufficiente, perché l’altro può essere uno stronzo o semplicemente disinteressato a noi, nel qual caso la comprensione ha l’utilità della forchetta con il brodo. Per tale motivo parlo di possibilità: se l’altro comprende può decidere di starci vicino.
Come si può spiegare il dolore? Comunicando. Cos’è la comunicazione? La comunicazione è un insieme di segnali, più o meno convenzionali, che noi utilizziamo per entrare in relazione con l’altro. Perché due persone possano comprendersi, queste devono incontrarsi su un terreno comune. La comunicazione è un incontro. Non c’è certezza di comunicazione efficace tra una persona che non vuole comunicare ed un’altra che non vuole comprendere: ma questo non è del tutto vero in psichiatria.
Lo psichiatra impara a leggere tra le righe, cercando segni tra gli scarti. Sì, lo psichiatria spesso rovista tra la spazzatura, ed interpreta come gli studiosi dei frammenti dell’antico Egitto. Guarda, osserva, ascolta, legge nei silenzi e, alla fine, prova a tradurre, vincendo la sua frustrazione e la rabbia, perché spesso di quella si tratta, di chi gli sta di fronte. Il tutto per leggere in quel malessere la causa del malessere stesso, perché soltanto da questa traduzione può nascere la possibilità di aiuto. Nella sua testa il tutto, ma proprio tutto, si traduce in parole. Sì, anche le sensazioni provate diventano parole nella nostra testa; ma questa è un’altra storia.
Ma le parole ingannano, e così quello stesso dolore chiamato Pippo può essere un Francesco, una Monica o qualcosa di più esotico come un Kevin o un raro Ildebrabando. Allora lo psichiatra non può fermarsi a ciò che sembra, ma deve cercare di arrivare a ciò che è. Perché il processo di cura non si ferma in superficie, ma si realizza nel profondo. Così, lo psichiatra indossa il suo elmetto da speleologo ed inizia la discesa.
In questo discendere, talvolta, ci si imbatte nell’angoscia. L’angoscia è un termine altisonante che rappresenta un incubo per lo psichiatra: cos’è mai questa angoscia? Dire angoscia è come entrare in una ferramenta e chiedere una vite. Ecco, la mente dello psichiatria è come se fosse quel negozio di ferramenta. Il guaio è che il cliente non sa spiegarsi bene perché lui sa benissimo quale vite voglia, e gli pare quasi assurdo che l’altro non riesca a capirlo.
Così lo psichiatra-ferramenta inizia il suo lavoro di comprensione, partendo dall’oggetto cui quella vite è destinata fino ad arrivare alla filettatura ed alle dimensioni. E già che c’è, alla fine chiede pure se la preferisce di un colore particolare, tanto è compreso nel prezzo.
Così Anna piange perché verranno a prenderla, mentre Carmela è schiacciata dal peso del suo passato laddove Marco non riesce a stare fermo un attimo anche quando sta seduto, come se albergasse in lui uno shaker in funzione continua. E non sanno spiegarsi meglio che dicendo che stanno male, o che sono angosciati. Tutto chiarissimo, non vi pare?
Perché le angosce sono sempre tutte uguali, proprio come le viti.
Testata Giornalistica con iscrizione registro stampa n. cronol. 1591/2022 del 24/05/2022 RG n. 888/2022 Tribunale di Nola