Ora che è morto, provate a ricordare da quanti anni non vedevate Gianni Miná in televisione.
Non i suoi servizi vecchi, le immagini di repertorio. Qualcosa di recente. Venti anni, venticinque? Di più ancora? Sicuramente tanti anni. Perché quello che ora, chiuso in una bara, viene celebrato unanimemente come un grande giornalista, in realtá in TV non appariva da quasi un quarto di secolo.
La RAI non lo faceva lavorare, e nemmeno le altre emittenti. Raramente qualche giornale lo intervistava. E non perché non avesse più nulla da dire, anzi. Infatti, lo stiamo riscoprendo ora, ancora a cadavere caldo.
Qualcuno poteva prendersi la briga di chiedere la sua opinione sui processi di cambiamento in corso in America Latina, di cui era un grande conoscitore. Magari qualcosa sul Brasile di Bolsonaro, oppure sul tentativo di Guaidò di prendere il potere in Venezuela. Avrebbe potuto intervistare proprio l’autoproclamato presidente della repubblica bolivariana, quando poco più di tre anni fa venne in Europa, ricevuto come un capo di stato (carica che si era attribuito da solo) dalla presidente Ursula von der Leyen. E si, che di domande interessanti Gianni Miná ne avrebbe sapute fare.
Ora che la morte naturale gli ha per sempre tappato la bocca, i grandi giornali e le reti nazionali possono tranquillamente tesserne gli elogi, inserirlo da subito nella schiera delle leggende del giornalismo italiano, insieme a personaggi del calibro di Biagi e Bocca.
Gianni Miná fino a qualche giorno fa ha continuato a scrivere solo sul suo blog, seguito solo da chi aveva davvero interesse di ascoltarlo, e per questo se lo andava a cercare in rete. Perché era un giornalista troppo scomodo, uno che nella vita aveva dato la parola a veri e propri emblemi viventi dell’antagonismo.
Noi napoletani lo abbiamo amato perché era unito a Diego Armando Maradona da un sincero sentimento di amicizia. “Che ti succede, Diego?”, poche parole, nessuna retorica, e aveva detto tutto. Uno dei pochi ad aver compreso la grandezza umana, e al tempo stesso la fragilitá, del campione argentino. Miná era cosi’: un giornalista capace di descrivere qualunque situazione umana con realismo, ma lasciando trasparire i sentimenti.
Aveva le sue idee, idee solide, ma non cercava mai di imporle attraverso l’edulcorazione del racconto. Ora che non c’è più, che il pericolo è scampato, i media main stream possono pure fargli un monumento di belle parole: servirá a seppellirlo più sotto.
di Francesco Cristiani
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