Il fenomeno dell’editoria a pagamento dilaga tra le aspettative di chi, pagando, vuole essere uno scrittore, ma in realtà diviene pedina di un gioco di cui ne è inconsapevolmente sfruttato. È meglio sottoporsi al giudizio e al rifiuto di un vero editore, che sia piccolo o grande, che pagare per false promesse.
Pagare per dover lavorare è già qualcosa di anomalo e se a tutto ciò si aggiunge l’obbligo morale di amici e parenti di dover assecondare il risultato della propria opera, la scena assume un carattere surreale. Eppure, esiste un mondo taroccato dell’editoria che chiede esattamente questo, pagare per vedere pubblicata una propria opera letteraria con la promessa d’infilarla tra i mille premi di paese, per lo più sconosciuti, con tanto di targa o encomio da postare sui social; promessa di una distribuzione in libreria (che spesso non avviene realmente) e di recensioni per un minuto di falsa gloria. È così che il circuito dell’editoria a pagamento genera un business solo per sé stessa, in cui il cliente non è il lettore che acquista il libro, ma è l’autore che lo scrive. Una scrittura spesso acerba senza alcun percorso di formazione specifico, che si affranca solo delle adulazioni parentali o del titolo di studio attaccato al muro.
Lo scrittore Enrico Dal Buono, nelle lezioni alla Holden di Torino, lo chiarisce bene ai suoi allievi che le vite avventurose, le esperienze di viaggio o i bagagli culturali non legittimano la pubblicazione di un romanzo. Una storia avvincente potrebbe essere una noia mortale se raccontata da chi non sa scrivere narrativa. Solo l’esercizio costante, gli anni di esperienza, lo studio, il confronto con altri autori, le partecipazioni alle presentazioni di libri e le continue letture formano uno scrittore, e non la stampa pagata di un romanzo che spesso non passa nemmeno uno straccio di editing portando nelle mani di lettori storie che non funzionano, e artefatte da stili di scrittura desueti derivanti da reminiscenze linguistiche di studi conclusi diversi anni addietro.
La formula dell’editoria a pagamento annovera anche la subdola tecnica d’imporre l’acquisto all’autore di un consistente numero di copie del proprio libro, quale contributo di stampa. Libri che, non di rado, contribuiscono solo a riempire magazzini e ripostigli con chili e chili di carta stampata lasciata in balia della polvere. Il peggio è che gli editori a pagamento alimentano schiere di personaggi arroganti, convinti d’essere i nuovi Steven King o Baricco del momento, intanto che gironzolano tra i circoli e le associazioni letterarie proponendo un libro il cui unico pregio è solo quello di aver arricchito editori senza scrupoli.
Se da un lato l’editoria a pagamento è una forma illusoria per gente annoiata e ammalata della sindrome del microfono, che non vede l’ora di pregiarsi di adulazioni e di essere il centro delle attenzioni in sonnecchianti presentazioni tirate per i capelli; dall’altra può essere un trampolino di lancio per chi –consapevole delle proprie capacità acquisite di narratore– decide di mettersi in gioco, investendo sulle proprie aspettative. Ma in tali casi è fondamentale non reiterare con l’editoria a pagamento e impegnarsi nella ricerca di un editore tradizionale. Del resto, se vi fossero disponibilità economiche, sarebbe meglio investirle in formazione e nell’acquisto di libri da leggere o, magari, in viaggi o esperienze che possano sollecitare la fantasia del futuro scrittore per affinare la sua capacità d’intreccio e le tecniche narrative, evitando d’inciampare nel sarcastico commento dei lettori forbiti: “forse era meglio l’albero.”
Mario Volpe, scrittore
Testata Giornalistica con iscrizione registro stampa n. cronol. 1591/2022 del 24/05/2022 RG n. 888/2022 Tribunale di Nola