L’anima primitiva di Pomigliano d’Arco, quella remota e antica di paese agricolo, è purtroppo ormai quasi del tutto scomparsa ed è ancora evidente solo nelle costruzioni del suo centro storico. Quella della “civiltà contadina” era una vita semplice ed essenziale, basata sulla coltivazione della terra, su i valori della famiglia, sulle tradizioni; Quasi tutti i pomiglianesi erano dediti alla coltivazione dei campi e tutto ciò che si produceva veniva consumato in un continuo riciclo, secondo la logica di una “economia circolare”.
Tuttavia, oltre all’agricoltura, nel piccolo paese di Pomigliano d’Arco, si è sviluppato nel tempo anche l’artigianato.
Poi, nel XXI secolo le industrie furono il motore di un ulteriore sviluppo sociale ed economico di Pomigliano d’Arco. Il progetto di una “nuova città industriale”, da realizzare intorno allo Stabilimento che doveva nascere a Pomigliano d’Arco, fu fatto dall’architetto milanese Alessandro Cairoli. Tale progetto rappresentò l’unico e solo esempio, nel Meridione d’Italia, di stile razionalista e modernista, in cui la concezione urbanistico - architettonica, prevedeva la realizzazione di una industria contestualizzata all’interno di una utopica “città sociale”.
Un grande progetto, dunque, che disegnava un'intera città intorno ad un polo industriale, il quale doveva risultare pilota per l'intero Mezzogiorno. Il forte impatto nel tessuto economico e nella struttura sociale della Città, che si era andata trasformando a partire dalla seconda metà del XX secolo e da semplice centro rurale era divenuta un centro a forte vocazione industriale, c’è stato poi, maggiormente, con l’avvio dell’Alfasud.
Infatti, in questo periodo di trasformazioni vorticose e travolgenti, la Città non ha avuto più una sua connotazione ben definita, in quanto non era più una tranquilla comunità formata da contadini e artigiani, con ritmi di vita lenti e a “misura d’uomo”, ma ancora non si riconosceva neanche nella nuova classe sociale emergente, fatta di operai e tecnici delle industrie, la quale aveva ritmi di vita troppo caotici e dinamici.
L’identità culturale della nostra civiltà contadina si era dispersa e quasi distrutta con la repentina e travolgente industrializzazione che, se in un primo momento era stato un elemento positivo in quanto aveva sollevato dalla miseria e dall’indigenza la gran parte della popolazione, alla fine, aveva svelato anche il suo aspetto negativo. La civiltà contadina, che per secoli si era perpetuata, era andata distrutta e tutti i legami con essa, sia culturali, come le tradizioni, il folclore e i ricordi, sia architettonici e urbanistici, con l’ammodernamento sconsiderato delle vecchie costruzioni, erano andati perduti.
Nonostante ciò, dagli anni settanta in poi, e maggiormente dopo gli anni ottanta e novanta, Pomigliano ha rappresentato un luogo ambìto in cui trasferirsi volentieri, sia perché era poco distante dalla città di Napoli, sia perché era in notevole espansione, molto ben collegato con il territorio circostante e, inoltre, al tempo, era ancora un paese relativamente tranquillo, che racchiudeva in sé i vantaggi di un ordinato luogo di provincia (prezzi accessibili delle abitazioni, vivibilità, umanità, socialità, ecc.) e quelli di una città industrializzata e moderna che, in quest’ultimo ventennio, ha avuto anche un notevole sviluppo del terziario.
Tuttavia, il dilatarsi dell’area urbana senza alcuna pianificazione, l’instabilità, la confusione e l’incertezza, prodotte dalla repentina svolta che aveva subito nel momento in cui, da povero, umile e semplice paese agricolo si era ritrovato a dover gestire la presenza di un notevole nucleo industriale, che aveva portato con sé tutta una serie di problematiche, aveva creato, già di per sé, i presupposti perché si verificassero le condizioni per una futura congestione della città, che avrebbe dato l’avvio ad un caos di traffico, dovuto al proliferare del terziario e della utenza, con sovraffollamento e difficoltà a poter risolvere i problemi legati ai servizi e alla viabilità.
In effetti, la qualità della vita in una città è buona quando vi sono civiltà, cultura e servizi, tutti ben rapportati e armonizzati fra di loro e quando vi è una interazione sia tra cultura e territorio, che tra passato presente e futuro. La città si deve modernizzare, ma senza trascurare l’aspetto umano, il recupero dell’identità e della memoria collettive, il patrimonio culturale, le presenze storico artistiche e le tradizioni.
Ed è a questo punto che un malessere diffuso inizia a pervadere le coscienze.
Quali possono essere, allora, le “considerazioni” che è lecito fare sulla evoluzione, lo sviluppo, la trasformazione del sistema economico e sociale, del territorio e dell’ambiente, degli abitanti e delle tradizioni, dei manufatti e delle strutture di Pomigliano d’Arco? e quale l’auspicio?
Il nostro territorio nasce con una vocazione prima agricola e poi anche artigianale ma, ad un certo punto, subisce un vero e proprio “stravolgimento”, dovuto al disordinato processo di industrializzazione prima e di sviluppo del terziario poi.
I suoi abitanti non sono più soltanto i nativi locali, in quanto, la popolazione è composta da persone provenienti dai più svariati luoghi, le quali non hanno nessun ricordo che le leghi ad un passato comune e possono quindi sentirsi proiettate verso un avveniristico futuro, senza nostalgie e ripensamenti.
Tuttavia, nonostante la nascita di nuove classi sociali, come quella di operai, impiegati, professionisti e commercianti e la venuta di tanti nuovi abitanti, le sue tradizioni e la sua cultura vengono caparbiamente portate avanti da pochi, appassionati studiosi, attraverso la riscoperta della musica e del canto popolare, del folclore religioso, del patrimonio storico-artistico e della microstoria locale, a beneficio delle giovani generazioni, affinché esse sviluppino la consapevolezza che la città è fatta dai cittadini, maturino l’orgoglio di appartenere a questa comunità, non dimentichino le loro radici e su di esse costruiscano il loro futuro.
E allora, quale è oggi la vera anima di Pomigliano d’Arco? E quale sarà quella futura? Insomma, Pomigliano d’Arco è una città che è legata ad un passato ancora vivo nei ricordi di molti? O si affanna a seguire i moderni ritmi frenetici e convulsi?
Pomigliano d’Arco vive, oggi, un presente proiettato nel futuro o un presente legato ancora al suo passato?
Pomigliano è ancora da identificarsi con un improbabile, nostalgica e anacronistica immagine di “arcadia felice”, chiaramente ammantata da un alone di inventiva e fantasia quando non di utopia? O il modello di vita agreste di una volta, legato alla terra e alla fatica nei campi, con tutti gli aspetti negativi che questo comportava, è ancora rappresentativo della nostra identità collettiva, afferente ai più importanti valori umani di una società?
O piuttosto, Pomigliano d’Arco, oggi, è da identificarsi con l’immagine di una giovane metropoli, che vuole essere proiettata nel futuro, con una tipica identità collettiva moderna e “green”?
Quale potrebbe essere, dunque, la risposta a queste assillanti domande che, tuttavia, ormai pochi si pongono?
Sarebbe auspicabile che, nella città di Pomigliano d’Arco, si potessero fondere, in maniera equilibrata, l’antica saggezza ed esperienza e i saldi valori della società arcaica di una volta, con i cambiamenti, le innovazioni, le trasformazioni e le prospettive future di una società moderna di oggi e che essa potesse maturare la vocazione di una città che guarda al suo passato per trarne spunti di riflessione, che sia impegnata culturalmente e che, dalla diffusione del proprio patrimonio di tradizioni, legato a feste e folclori, e delle proprie presenze artistiche e architettoniche, possa fare tesoro, per farne polo di forte attrazione non solo per i cittadini stessi o per quelli dei paesi limitrofi, ma anche a livello turistico più ampio, rispolverando e ripescando dal passato e offrendo nell’ambito di una rivisitazione storica e in costumi dell’epoca, avvenimenti ed episodi come: la visita del re Carlo III al nostro piccolo centro, la sosta della regina Giovanna in fuga, il matrimonio dell’ultima erede del casato dei Cattaneo, Maria, che ebbe anche in dote il palazzo baronale di Pomigliano, con don Giovanni Antonio Riario Sforza, dalla cui unione nacquero Nicola Giovanni V, duca Riario Sforza, e il cardinale Sisto Riario Sforza.
Non da meno potrebbero essere fonte di attrazione le presenze artistiche di un certo rilievo come il complesso di San Felice o quello del Carmine ricchi di pregevoli opere pittoriche e non. Si potrebbero organizzare domeniche di visite guidate, ma anche manifestazioni di altro tipo che attirerebbero comunque un pubblico interessato e impegnato culturalmente, e dalle quali se ne potrebbe anche trarre un indotto economico con il ripotenziamento di quelle presenze commerciali che da un po’ si trovano in difficoltà e con l’avvio di altre evidenze cittadine legate al nuovo indotto.
Ma, per attuare tutto ciò, ci vorrebbe una classe dirigente all’altezza, che abbia maggiore larghezza di vedute che sia proiettata verso il futuro, che non si perda in piccole beghe personali e malintesi sensi di giustizialismo, ma che adoperi le proprie energie per riportare la nostra Città al centro di tutto il circondario, attraverso un percorso a trecentosessanta gradi che, partendo dalla viabilità, dalla sicurezza e dalla pulizia, possa arrivare a mettere in luce le sue specifiche peculiarità e alla completa riqualificazione di tutto il territorio, il quale diverrebbe così centro propulsore di cultura, arte e tradizioni.
di Vera Dugo Iasevoli
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