“È depresso, Dottore, non lo vede? Come fa a dire che non lo è?”.
In casi come questo, mi sento come il mozzo di Titanic di de Gregori, che avverte dell’iceberg mentre il capitano dice che “è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole”. Non ce l’ho con i familiari; non ce l’ho mai avuta, e nella maggior parte dei casi si riesce a stabilire con loro una alleanza preziosa perché io ne rispetto il ruolo. Non sempre posso dire che loro fanno altrettanto, anche se in buona fede, con me: ed è proprio questa la storia. Capire. Capire è una delle attività più sopravvalutate, nonché delle più pericolose se si vuole soddisfare questo bisogno nelle condizioni sbagliate.
Cosa succederebbe se un mago mi svelasse i suoi trucchi, prima di mostrarmi il suo gioco? O se un regista mi mostrasse il dietro le quinte, e poi il film? O se provassi a pilotare un aereo, seguendo le istruzioni sommarie carpite ad un pilota, tra una birra ed un’altra? Un disastro, c’è un nome per tutto questo. Il professionismo impone che si dia credito al professionista; ho detto credito, non fede, ed il professionista deve meritare il suo credito esercitando il suo professionismo, chiarendo i limiti della sua professione (l’onnipotenza non è soggetta ad IVA) e fornendo tutte le spiegazioni che è possibile dare in una maniera che sia comprensibile per un non addetto ai lavori. Ma spiegare le sua professione no, questo non può farlo. Cosa avrei dovuto dire a questa mamma preoccupata? O ad un figlio ed un marito, il giorno prima? Avrei dovuto spiegare loro che non era depressione, ma uno stato misto; di poi spiegare la psicopatologia dello stato misto, e la sua farmacologia, ancora dopo? E cosa mai ne avrei ottenuto? Nulla, se non una gran confusione.
Parlare con un familiare deve essere come fare divulgazione: si deve informare senza pretendere di essere esaustivi e dare fiducia e conforto, per quanto possibile. Non smetterò mai di dire che tutti noi, da un lato e dall’altro della scrivania, siamo nella stessa barca ed abbiamo un nemico comune, che è il disturbo: non è il medico, non è il paziente, non è il padre o la madre né tantomeno il farmaco il nostro nemico, ma la “malattia”. Eppure come è difficile comprenderlo, quando si sta male. Sì, la sofferenza provoca una distorsione cognitiva, vale a dire ci fa concentrare su un aspetto o un altro perdendo di vista il quadro d’insieme.
Così, in uno stato misto che è, per farla breve, una compresenza e/o alternanza di “depressione ed agitazione”, c’è chi vedrà la prima e chi la seconda, non riuscendo a legare tra di loro le due cose opposte, e si chiederà di curare l’uno dimentichi dell’altro a seconda di ciò che preoccupa di più in quel momento. Subito, perché questa cosa dura già da troppo tempo, anche se per te è la prima volta che parli con il paziente e di lui conosci soltanto il nome, e l’evidenza dei suoi sintomi. Ma ti deve bastare e devi fare presto.
Ma della fretta parleremo un’altra volta, questa è un’altra storia. Così, tu provi a fare le tue alchimie, applicando le linee guide e la tua esperienza, dribblando gli effetti collaterali, saltando a piè pari tutti i farmaci che non puoi usare per comorbilità ed affini, provando a vincere le resistenze, i pregiudizi, la stanchezza, tua e loro (sì, incredibile a dirsi, anche i medici si stancano) e portandoti a casa, ogni volta, la frustrazione del tempo che passa. Quel tempo che tu sai che ci vuole, e glielo hai detto, ma che pare sempre troppo lungo alla luce di quella distorsione che l’essere chiamato due volte al giorno per aggiornamenti ti causa (sì, anche i medici sono esseri umani, talvolta, anche se modello base). Alla fine vorresti arrenderti, partire con un “vaffanculo” formato famiglia, non importa quanto meritato o meno, solo per liberarti un po’. Ma non lo fai, se non nelle tue fantasie più perverse ed inconfessabili (ognuno ha le perversioni che si può permettere), e vai avanti, sapendo che, se ti staranno a sentire, probabilmente porterete a casa il risultato.
Sarebbe tutto così semplice se non si avesse a che fare con il materiale umano; ma la psichiatria, che che se ne dica, è una scienza applicata: è clinica, non teoria, è l’oggetto della clinica è l’uomo. “Lo sente questo lamento provenire dalla stanza affianco, dietro quella porta a vetri? Ogni volta che qualcuno scambia uno stato misto per una depressione, Kraepelin si sente male”. “Ma adesso mio figlio deve essere visitato pure da lui?”. “No, è appena morto. Il suo cuore non ha retto, beato lui”.
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