“Le serenate non funzionano più, Dottore”.
Ripeto sempre che la psichiatria, a vederla da dento, non ha nulla di poetico, e ciò perché la clinica ha a che fare con la sofferenza. Ci sono però cose che accadono improvvisamente, e che cogli ed apprezzi proprio perché succedono nell’esatto momento in cui devono accadere. Era stata una settimana in cui avrei solo desiderato mollare tutto, ed ecco che Giorgia mi riconciliava con il mio lavoro, con una semplice frase. Non c’erano dubbi sulla diagnosi di Giorgia. Non ce ne potevano essere, se non quelli che io mi faccio sempre quando devo dire ad un giovane paziente e ai suoi genitori che dobbiamo affrontare la schizofrenia.
Dico “dobbiamo” perché il primo che deve fare i conti con questa diagnosi sono io, e ci metto sempre un po’ a comunicarla, utilizzando perifrasi e diagnosi di attesa, un po’ per preparare tutti loro ed un po’ per preparare me, nella remota speranza che il tempo mi riveli che mi sono sbagliato. Non succede mai, ma è piacevole legarsi anche ad una flebile speranza. Generalmente è il paziente quello più tranquillo dei quattro, perché in cuor suo già lo sa e già sa cosa sta affrontando, tra voci e comportamenti strani del mondo che lo circonda. Un mondo che non è più come prima, mentre lui è apparentemente sempre lo stesso da quando ha ricevuto la “rivelazione” del delirio, portata dai messaggeri delle “voci”. Mi meraviglia sempre di come non vi sia alcuna difficoltà a parlare delle voci, come se fosse normale parlarne così apertamente; io dico “voci” ed il paziente mi capisce e mi risponde secco con un sì, salvo poi a provare ad articolare in parole questo mistero. È come trovarsi un giorno trasformato in uno scarafaggio e per il mondo e per noi stessi pare non sia cambiato nulla (e poi dicono che la letteratura è inverosimile).
È il potere trasformativo della psicosi, bellezza. No, con i deliri è più difficile, perché spesso i deliri investono il mondo circostante, quel cerchio più ristretto che può essere delimitato dalle mura domestiche, al massimo dal condominio, che diventa questo piccolo mondo carcerario di maldicenze e di piccole persecuzioni tra amici, fino ad allargarsi talvolta ad una cospirazione planetaria in cui fai fatica ad immaginare che i più grandi leader mondiali, gli alieni e Dio ce l’hanno proprio con te , che in fondo sai di essere un povero stronzo. Ma funziona così, e non puoi fare che accettarlo. Così arrivano i farmaci. Alcuni medici non fanno grandi distinzioni, scegliendo a mani basse tra quelli che possono andare bene “perché sul foglietto illustrativo c’è scritto così”.
Come se un piatto di pasta al pomodoro fosse la stessa cosa di una lasagna rivestita di porchetta, con uno strato di strutto a coibentare il tutto, casomai provasse ad evaporare qualche caloria. Certo, i sintomi passano anche se gli sparo, ma non mi pare proprio una strategia vincente. La strategia vincente, a mio parere, è quello in cui si vede l’ottimo nemico del buono. L’obiettivo deve essere la qualità di vita, perché io devo tenere ben presente, affinché lo possa dire a chi mi sta di fronte, che probabilmente non ritornerà tutto come prima, che la sospettosità un po’ resterà così come qualche voce, flebile o di tanto in tanto, ma che nel frattempo potrò rubare tanta vita alla “malattia” vivendo “nonostante”. Perché la “malattia” è parte della vita, ma non tutta la vita.
Così, sarebbe carino provare a non farlo ingrassare, a non farlo tremare, a non farlo stare sedato perché possa seguire un film, tutte cose che si possono ottenere con poco mettendo il paziente al centro e non le sue “voci”. Del resto, le croci c’è chi se le porta sulle spalle, e chi appese al collo. Bisogna parlare, bisogna allearsi con il paziente ed i suoi familiari e fare fronte comune contro la “malattia”, che poi in psichiatria si chiama disturbo, ma questa è un’altra storia. Bisogna parlare per fare una strategia comune, per accettare di andare per gradi, tanto con le dosi quanto con la scelta dei farmaci, arrivando quando è necessario a quelli un po’ più impegnativi per l’impatto che sulla qualità di vita possono avere. Accettando anche che ci si possa accontentare, se il paziente si accontenta, se l’equilibrio è accettabile. Del resto, disturbi a parte, nessuno di noi può tornare quello che era prima, dobbiamo rassegnarci.
“Non è un mondo per romantici, mia piccola Giorgia, ma noi romantici ce ne freghiamo e ci continuiamo a vivere lo stesso”. So cosa state pensando: che quello di Giorgia sia un semplice errore che ha trasformato “Serenase” (nome commerciale dell’Aloperidolo) in “serenate”. Non è così, lo ha fatto apposta; ed è proprio questa ironia sottile il motivo per cui credo che ce la potrà fare. Perché? Non siate troppo curiosi, questa è decisamente un’altra storia.
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