Life on Mars? - "Dormire, morire, forse sognare" - la rubrica dello psichiatra Vittorio Schiavone

Vittorio Schiavone • 30 giugno 2024

Ammesso che vi sia l’insonnia, poi che si fa? L’errore è cercare di curarla banalmente con farmaci che facciano dormire. La psichiatria è disattendere il sintomo e contestualizzarlo (da quanto tempo non lo dicevo?). Quindi, sarebbe assurdo pensare che un ipnotico sia la risposta a tutti i mali: del resto, un ipnotico da solo non lo è mai. Perché? Mi spiego con un esempio, così non si capirà proprio niente (come diceva Flaiano). Vittorio Schiavone, primario di psichiatria presso la Clinica Hermitage di Capodimonte ci parla di un disturbo molto comune: l'insonnia.

“Dormirò con questo farmaco che mi ha prescritto, Dottore?”.


Ho sempre avuto un rapporto molto personale con il sonno. Mia madre mi racconta che sin da piccolo dormivo pochissimo; le mie giornate, pertanto, duravano sempre tanto, molto più che la norma perché cominciavano prima. Ricordo inoltre, e questo è un ricordo mio, di quanto faticassi ad addormentarmi in un periodo pre adolescenziale, e di quanto questo mi procurasse un’angoscia profonda. Tutto tempo sprecato, mi verrebbe da dire, sia quello rubato al sonno che quello ad esso dedicato. Ma questa è un’altra storia.


Sì, sono uno short sleeper, vale a dire uno di quelli che dorme poche ore a notte e non si sente stanco. Sì, in quanto short sleeper ho la fortuna di avere molto più tempo, ma c’è un però: la mia è una vita di relazione alquanto segnata. Se nei giorni lavorativi non vi è grande differenza, in quelli liberi da impegni, nei giorni di vacanza, ad esempio, la differenza c’è, eccome. Un dormitore breve è un disadattato sociale, che deve stare attento a non svegliare nessuno all’alba e deve imparare ad aspettare gli altri. Una vita di inutile attese e spesso di evitabili umiliazioni, proprio come avviene per le persone puntuali. “Morire.


Non fosse altro che per fregare l’insonnia”: Bufalino docet. Qui, però, non si tratta di fregare l’insonnia e neppure di morire, ma di contestualizzare. Innanzitutto, si è insonni fino a prova contraria, e la prova contraria la si ottiene con poche e semplici domande: quanto dorme, quando va a dormire, quando si sveglia, fa fatica ad addormentarsi, si sveglia e si riaddormenta, si sveglia presto, si agita/parla nel sonno, le gambe sono irrequiete. Poche semplici domande, magari rivolte anche alla persona che dorme con lui/lei sono sufficienti. Ammesso che vi sia l’insonnia, poi che si fa? L’errore è cercare di curarla banalmente con farmaci che facciano dormire. La psichiatria è disattendere il sintomo e contestualizzarlo (da quanto tempo non lo dicevo?). Quindi, sarebbe assurdo pensare che un ipnotico sia la risposta a tutti i mali: del resto, un ipnotico da solo non lo è mai. Perché? Mi spiego con un esempio, così non si capirà proprio niente (come diceva Flaiano).


Se l’insonnia fa parte di un quadro depressivo, la vera risoluzione la si otterrà curando e risolvendo la depressione; se, viceversa, è secondaria ad un umore troppo alto, la persona comincerà a dormire nel momento in cui l’umore si sarà stabilizzato. Il tentativo di sedare si tradurrà, banalmente, in una sonnolenza/confusione diurna che farà sì che il paziente dorma di giorno e resti sveglio di notte (inversione del ritmo sonno-veglia): se non inutile, dannoso. Certo, l’insonnia potrebbe essere associata ad un disturbo del sonno della fase REM, alle gambe senza riposo (non trovate che sia una descrizione deliziosa?) o a mille altri problemi per cui un banale ipnotico non potrà mai funzionare.


Del resto, se non si provasse a modificare le cause, il rischio concreto sarebbe quello di un misuro del farmaco stesso nel corso del tempo. Questo perché, con la buona pace di un paio di molecole, gli ipnotici sono farmaci a grande potenziale di abuso perché si sviluppa, nel corso del tempo, tolleranza (devo prenderne di più per avere lo stesso effetto di prima) e dipendenza (se non li prendo mi sento male); la cosa singolare è che, sebbene questi siano davvero gli unici farmaci usati in psichiatria che abbiano queste caratteristiche non desiderabili, ciononostante vengono percepiti come farmaci sicurissimi.


Quindi, benché un antidepressivo sia sicurissimo davvero e senza potenziale di abuso, la benzodiazepina ci piace di più perché più noto e pubblicizzato: se la signora Quagliarulo se lo prende da trent’anni, non può fare male. Fa piacere sapere che io con la mia laurea, la mia specializzazione, il mio dottorato di ricerca e la mia esperienza da specialista quasi ventennale, me la devo giocare con la signora Quagliarulo, che frequenta l’italiano come una lingua esotica e straniera. In conclusione, come Rossella, si comincia con 5 gocce e si finisce a tre flaconi al giorno. “Più di me sicuramente”. “Ma mica è un antidepressivo? Non mi prescriva un antidepressivo, quelli fanno male”. Voglio morire, e di certo non per fregare l’insonnia”.

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