“Mi faccia capire, Dottore: loro mi fanno incazzare e poi le chiedono di aumentarmi i farmaci?”.
È stata una settimana difficile, spiacevole, infinita. Per la maggior parte del mio tempo ho dovuto discutere di strampalati effetti collaterali, vale a dire di farmaci che modificano le fasi lunari ed influenzano le maree. In uno scenario simile, di cui quanto sopra rappresenta soltanto la punta dell’iceberg, di venerdì sera, come ultima visita “urgente”, mi ritrovo il controllo di questa ragazzetta cui, un anno prima, avevo diagnosticato un disturbo bipolare. A distanza di un anno, posso dire di non essermi sbagliato.
Non è andata poi male, in fondo: non ci sono stati episodi critici importanti e neppure significative oscillazioni nei cambi stagionali o in quei momenti dell’anno che, con il suo aiuto e quello dei genitori, ero riuscito ad evidenziare come momenti cui prestare attenzione. Una terapia che pareva fare il suo dovere, insomma, senza neppure effetti collaterali degni di nota. Ci sarebbe stato di che esserne lieti, rendendo questa mia ultima visita “urgente” delle ore 20 tutto sommato leggera, se non ci fosse stata la scena della mossa finale.
So che mi leggono anche molti millennials, quindi devo fare una precisazione, e dio solo sa quanto odi precisare. La mossa finale era il momento culminante dei cartoni fine anni ’70 inizio ’80: l’eroe od il robot di turno finivano l’avversario con il colpo segreto, generalmente portato con una lentezza imbarazzante ed addirittura preannunciato con enfasi. Come dire: ti devo uccidere, ma non dimentico l’educazione. In psichiatria la mossa finale è quella che, in un colpo solo, vanifica ogni sforzo fatto dallo psichiatra per stabilire una buona relazione terapeutica; se è vero che i farmaci sono democratici, funzionando anche sui miscredenti, è altrettanto vero che senza una buona relazione terapeutica il paziente il farmaco non se lo prende o non lo continua, perché, come è intuibile, non si fida di esso ma del medico che glielo suggerisce. La mossa finale, loro malgrado e senza colpevolizzazione alcuna, viene generalmente portata dal familiare di riferimento, sia esso genitore o compagno di vita. Se la sferra un altro, non funziona: sono queste le regole dei manga e della psichiatria.
Qual era in questo caso? Semplice: si arrabbia. Siamo tutti, a volte, oggetto di reazioni eccessive senza essere per forza bipolari, perché è possibile per ciascuno di noi “prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese, sapendo che quel che brucia non son le offese”. Il guaio è che anche un bipolare può arrabbiarsi, anche eccessivamente, senza che ciò rientri in una fase di scompenso. Detto altrimenti, anche i bipolari hanno il sacrosanto diritto di essere eccessivi o stronzi, senza essere di fatto in una fase di alterazione dell’umore. E sapete perché? Perché, al di là del loro disturbo, anche i bipolari hanno una personalità o, come si preferisce chiamarlo, un carattere (no, non sono un modello base). È proprio questo carattere che il disturbo va a modificare nelle fasi critiche, perché la personalità la può modificare soltanto qualcosa di destruente; ma, risoltosi l’episodio, il carattere tornerà ad essere quello che è sempre stato, e non c’è farmaco che possa funzionare su di esso, grazie a dio.
Ma i familiari, talvolta, non li vogliono neppure nuovi, ma perfetti: scoperto l’inghippo, perché non si può “aggiustare” anche questo? Talaltra sono mossi dalla paura, dalla ricerca dei sintomi premonitori, dalla prevenzione oltre la prevenzione. C’è poi il discorso sul senso di colpa o sulla frustrazione, ma questa è un’altra storia. Ciò che conta in questo racconto è che il povero “bipolare” deve lottare non solo contro il suo disturbo, ma anche contro il pregiudizio di “essere bipolare” e non “affetto da disturbo bipolare”. Ecco che il suo disturbo è diventato a pieno diritto il suo carattere.
No, non è così: la ragazzetta di cui sopra il suo “carattere” lo aveva, ed infatti erroneamente era stato considerato il suo disturbo principale; ed era ed è un carattere molto versato allo scontro, alla polemica, alla iper-reattività agli eventi esterni, specialmente al giudizio, all’abbandono, al rifiuto. E tale era rimasto, nonostante litio ed affini. Una psicoterapia certo l’avrebbe aiutata ad interpretare meglio il mondo esterno e ad interagire in una maniera meno disfunzionale con esso, ma con tempi lunghi ed impegno: perché ci vuole tempo ed allenamento per non soccombere ed imparare a controbattere alla mossa finale.
“E che te li aumento a fare? È il tuo carattere: tu sei una scassacazzi di personalità, hai preso da mamma”.
Lei ed il padre sorrisero, la mamma un po’ meno. Io ero ancora tutto intero: per una volta, la mossa finale dell’eroe non aveva funzionato.
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