Life on Mars? - a cura di Vittorio Schiavone - La mala educación

Vittorio Schiavone • 8 ottobre 2023

Lo psichiatra, nell’opinione comune, è una sorta di 007 il cui fine deve sempre giustificare i mezzi. Quindi, a secondi dei casi, è l’amico dello zio che il paziente ama tanto, il medico che deve fare l’accertamento per la pensione, un neurologo (perché “psichiatra fa brutto”), il nuovo medico di famiglia, uno psicologo o un tizio, generico e non meglio specificato, con il quale farsi una chiacchierata. Nonostante tutto ciò, che già basterebbe per decidere di lasciare la professione e andare a vendere le caldarroste, il paziente viene pure condotto con ulteriori inganni, con minacce o con promesse di doni.  Il nuovo contributo di Vittorio Schiavone, primario alla Clinica Hermitage di Capodimonte (Na)

“Ha sospeso quasi tutto, Dottore, circa un mese fa, e ha continuato a prendere questo a metà e quest’altro come aveva detto lei, a dose piena. Io lo ho assecondato, non sapevo cosa fare”.

È, la mia, una professione medica contro natura: il paziente generalmente va dal medico spontaneamente, anche se spesso controvoglia (ma questo è comprensibile) per sapere cosa dovrà fare. In alcuni casi non lo farà lo stesso (“è così piacevole essere avvisati”, come diceva Wilde parlando dell’oroscopo ), in altri lo metterà in discussione per l’opinione certamente autorevole del vice sostituto parcheggiatore abusivo o di Pinky Molly, utente Google dal 2015, ma almeno dal medico ci andrà con le sue gambe che tengono dietro ad una volontà concorde. In psichiatria no.


Lo psichiatra, nell’opinione comune, è una sorta di 007 il cui fine deve sempre giustificare i mezzi. Quindi, a secondi dei casi, è l’amico dello zio che il paziente ama tanto, il medico che deve fare l’accertamento per la pensione, un neurologo (perché “psichiatra fa brutto”), il nuovo medico di famiglia, uno psicologo o un tizio, generico e non meglio specificato, con il quale farsi una chiacchierata. Nonostante tutto ciò, che già basterebbe per decidere di lasciare la professione e andare a vendere le caldarroste, il paziente viene pure condotto con ulteriori inganni, con minacce o con promesse di doni.


È evidente, senza bisogno di aggiungere altro, che in un contesto simile lo psichiatra ha già perso, ed è praticamente inutile andare avanti.
Lo psichiatra, mi pare ovvio, cerca sempre di evitare tutto ciò, specificando sempre che ci vuole volontarietà e chiarezza. Talvolta è anche lui stesso ad essere ingannato dal furbo e spesso disperato parente, ed allora prova come può a recuperare una credibilità di rapporto; talvolta ci riesce, talaltra deve spiegare agli agenti di scorta che hanno condotto il paziente nel suo studio che non funziona così, illustrando cosa deve farsi in questi casi. “Ma questo lo sapevamo già, ce lo hanno già detto i 25 psichiatri precedenti”. Il sogno di vendere caldarroste si fa sempre più invitante.


Questo scenario sottende il pensiero, che non assurge al livello di consapevolezza, di una messa in discussione della psichiatria, vuoi per diffidenza, franca paura o perché considerata cazzologia applicata. “Io non credo nei farmaci/psicoterapia”, cui segue la mia risposta, oramai sempre più stereotipata e priva di qualunque piacere da blastomero: “Non sono oggetto di fede, ma sono sono comprensivi, risultando efficaci anche sui miscredenti”. Questo scenario iniziale, tutto centrato sul paziente, apre una serie di sotto scenari che riguardano l’entourage dello stesso, in cui la sua diffidenza si ritrova spesso, a vario titolo, nei suoi familiari. Partendo dal presupposto che i farmaci (tutti, indistintamente ed a qualunque dosaggio) fanno male, gli accompagnatori chiedono qualcosa di naturale, una benedizione o un rituale che faccia guarire il congiunto (amatissimo ma condotto nello studio con l’inganno o con la forza) dalle “voci” che sente. Comprenderete che, a questo punto, anche vendere le caldarroste pare un obiettivo irraggiungibile, e si punta a divenire produttori di CO2 da salotto.


Se questo scenario pare grottesco ed estremo (ma non meno reale, credetemi, e non si senta offeso nessuno perché è chiaramente difficile essere compartecipi di una sofferenza senza strumenti idonei per affrontarla), ve ne sono altri molto più subdoli ma non meno pericolosi. Ad esempio, c’è il parente diffidente selettivo, quello che fra i farmaci che tu prescrivi decide che uno gli sta antipatico, e così inizia a selezionare degli effetti collaterali che suggerisce o evoca nel paziente affinché questi induca lo psichiatra a sospenderglielo. O quello che, a seguito di un raffreddore, decide che è stato il farmaco Pippo (li possono chiamare anche come gli abitanti di Topolinia, tanto non sanno cosa sono) a causarlo, e quindi glielo fa sospendere ma non te lo dice; così tu ti trovi questo paziente magari troppo ansioso ed insonne (perché la terapia è sbilanciata e tu non lo sai) e ti arrovelli per capire cosa stia andando storto, mettendo in dubbio la psichiatria, la psicofarmacologia, te stesso, la tua laurea, la tua specializzazione, il tuo dottorato di ricerca, il tuo nome e cognome ed il mondo tutto, e cerchi affannosamente quel tizio con il cappotto nero di pelle e gli occhiali scuri anche di notte che possa offrirti la pillola rossa e la pillola blu. “Tanto era sono una, una sola volta al giorno, ad un dosaggio basso”. “Ho pensato che era meglio a giorni alterni”. “Gli ho fatto prendere la Valeriana”. Voglio morire.

“In quel quasi si riassume uno dei problemi che dobbiamo affrontare. Credo sia giusto sentire un altro parere. Le passo un foglio di carta intestata, imposti la terapia a suo figlio”.

“Ma io non sono dottore!”.

“Appunto, sta facendo esercizio abusivo di professione. Faccia quello che sa fare bene, il papà amorevole e preoccupato, e lasci questi problemi a me, è il mio ruolo assumermeli. Chiamami tu, Guido, tutti i giorni se necessario, anche insieme a papà, ma io voglio parlare con te e ragionare con te di come ti senti e della terapia. Va bene per tutti?”.

Lo so cosa state pensando, che il padre mi sia antipatico. Non è assolutamente vero, anche se è il titolare di un franchising di vendita di caldarroste.

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