Life on Mars? - a cura di Vittorio Schaivone - “È colpa sua, Dottore!”
"Il gioco delle colpe è più antico del gioco dell’oca ma, a differenza del primo, non vince mai nessuno. È sempre colpa di qualcuno ma, in psichiatria, i grandi colpevoli sono solo tre: il paziente, la famiglia e lo psichiatra.
Quando il paziente si prende la colpa, è praticamente sempre la patologia che parla. Non ho visto mai angoscia più grande di quella del delirio di colpa e rovina nei pazienti affetti da depressione maggiore". Ne parla Vittorio Schiavone, primario di psichiatria presso la Clinica Hermitage di Capodimonte (Na)

Il gioco delle colpe è più antico del gioco dell’oca ma, a differenza del primo, non vince mai nessuno. È sempre colpa di qualcuno ma, in psichiatria, i grandi colpevoli sono solo tre: il paziente, la famiglia e lo psichiatra.
Quando il paziente si prende la colpa, è praticamente sempre la patologia che parla. Non ho visto mai angoscia più grande di quella del delirio di colpa e rovina nei pazienti affetti da depressione maggiore. Non ci sono appigli: le convinzioni del paziente sono come le pareti di un moderno grattacielo ricoperte di sapone per i piatti. Il paziente è colpevole perché ha ragione, e la forza delle sue ragioni è sostenuta ed alimentata dal delirio. Perciò vuole morire, perché è, la morte, l’unica soluzione possibile.
La famiglia, un grande classico. Mi chiedo se sia il caso di parlarne davvero, o di lasciarlo come uno dei grandi assunti della vita, proprio come il sorgere del sole. I genitori sono colpevoli perché sono genitori: perché lo sono stati, perché non lo sono stati; perché lo hanno fatto bene, ma anche perché lo hanno fatto male. Non sempre questo giudizio è lucido, perché anche esso può essere viziato da una qualche forma di deviazione; e, quasi mai, la condanna è proporzionata alla colpa, vigendo le regole di un despota assoluto più che quelle di un giudice attento. La soluzione? Non c’è. Il tutto si cristallizza e si consuma in questo rapporto di parentela che è infinito ed indissolubile, o almeno tale si crede, proprio come infinito ed irrisolvibile è il disagio che ne consegue. La colpa diventa un meccanismo omeostatico del dolore, il suo più grande inganno, il suo tentativo più riuscito per cronicizzarsi. Per arrivare a cent’anni come il suo portatore che, in punto di morte, maledirà le ceneri dei suoi per averlo fatto morire, e morire da solo.
Lo psichiatra, infine: inutile dire che mi tocchi da vicino. Quando si punta il dito contro lo psichiatra, questi diventa, contemporaneamente, paziente e genitore: diventa depositario di una colpa grandissima e non emendabile, insolubile, degna della più grande punizione. È l’impotenza che ne è alla base: di fronte alle grandi tragedie della vita, misurate ciascuno con il proprio personalissimo metro (anche un’unghia spezzata nel momento inopportuno può causare angoscia), l’irreversibilità scatena la colpa perché il desiderio inconfessato e “delirante” è quello che ciò che è accaduto non sia accaduto realmente. La colpa è il nostro tentativo, allora, di rigettare la realtà. Lo psichiatra è il campione del re: se fallisce nella sua impresa, non importa quanto disperata ed impari, ne deve pagare le conseguenze perché la colpa, questa divinità primitiva, pretende un tributo di sangue per essere placata. Non è importante chi si senta realmente in colpa, in questo discorso: fermiamoci a quello che è il colpevole designato.
Lo so cosa state pensando: che io voglia assolvere i colpevoli. Vi sbagliate. La colpa, al pari del giusto o dello sbagliato, non sono categorie che dovrebbero trovare posto in psichiatria se non per il loro valore simbolico, vale a dire per ciò che rappresentano per il paziente. Semplifico, ne sono consapevole, ma sennò non ne usciamo vivi in uno scritto divulgativo. Non parlo del paziente che si è giocato tutto al gratta e vinci, dei genitori che maltrattano i figli o degli psichiatri che sono negligenti: cosa dovrei mai dire? Qui entra in gioco il buonsenso, e possiamo fermarci qui. Io parlo di quelle condizioni in cui la colpa è patologica (vedi il paziente) o la sua attribuzione blocca ed impedisce un processo di “guarigione” (vedi i genitori) o essa ha un valore “risarcitorio” frutto di un patologico tentativo di difesa (di fronte alla morte o alla sofferenza, in fondo, ci sentiamo tutti colpevoli). Il punto qui è un altro: lo psichiatra è sempre colpevole. È colpevole di non credere al paziente delirante, è colpevole di non colludere con la rabbia del paziente-figlio, è colpevole di non essere riuscito a “guarire” dalla schizofrenia o di non avere evitato la morte. E la sua innocenza va gestita come quella del Cavaliere Oscuro che deve incarnare il cattivo per il bene di Gotham city (ho sempre sognato di essere Batman, in realtà), con la differenza che lui non può sparire e non ha una maschera né una identità segreta perché lui, a differenza dell’uomo pipistrello, non è né un superoe né un eroe, ma semplicemente uno che prova a fare il suo mestiere. Ma questa è un’altra storia.
“È sempre colpa mia, Diletta. Io sono come il cedro che profuma persino l’ascia che lo abbatte. Assodato ciò, cosa vogliamo fare? Come vogliamo usare in maniera utile questa colpa?”. Pochi sanno che profumare la lama è il modo elegante che il cedro ha escogitato per mandare il tagliaboschi e l’ascia affanculo.
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