Ciò che incanta lo spettatore in un numero di magia è la terza fase della prova: ovvero il prestigio. Michael Caine lo dice in una magistrale interpretazione nella pellicola The Prestige, in una prima memorabile scena quando, nel far sparire un uccellino in gabbia davanti allo sguardo incredulo di una bambina, afferma che l’illusionista prende qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario grazie al suo segreto di magia, che lo spettatore non si sforzerà di scoprire solo perché –in quel momento– vuole essere ingannato. Lo stesso inganno a cui, inconsapevoli, ricorrono straordinari scrittori, poeti e artisti il cui segreto dell’incomparabile genio sono i mali, il disagio, i disturbi comportamentali e psichici che li hanno afflitti nel corso della vita. Mali che, in una persona ordinaria, sono considerati limitanti patologie da curare, ma nella mente dell’artista trasmutano in qualcosa di straordinario che lascia attonito chiunque fruisca della sua opera. È il fascino del bello, qualcosa fuori dall’ordinario di cui non è importante carpirne la fonte o il tormento che l’ha generata, piuttosto il risultato che quello stesso tormento ha prodotto: esattamente un’illusione, ecco ciò che produce la genialità disturbata e disturbante di artisti indimenticabili incapaci di reggere fisicamente alle sollecitazioni del proprio estro creativo e del frustrante collo di bottiglia psicologico che, talvolta, nel momento massimo della creazione, strozza il flusso espressivo così da paralizzare la soddisfazione del proprio operato.
Marcel Proust per scrivere la Recherche impiegò ben quindici anni per una maniacale attenzione alla scrittura e alla riscrittura, mentre l’artista britannico Damien Hirst – pur essendo tra i pittori contemporanei più quotati – ha letteralmente dato alle fiamme ben mille dei suoi lavori tra: quadri, schizzi e bozzetti. Genio e follia, un binomio inscindibile e irresistibile, quasi l’unica giustificazione razionale dell’uomo comune difronte alla potenza emotiva di un dipinto, di una scultura, di un libro o di una poesia. Lo stesso Steven King – uno degli autori viventi più letti e conosciuti al mondo –, benché avesse detto in un’intervista che anche uno scrittore lucido può scrivere un grande romanzo, le sue opere di maggiore successo le ha composte sotto l’effetto allucinogeno dell’alcol. Che siano problemi di dipendenza, malattie della mente o disturbi del comportamento, la follia pare alimentare la vena creativa.
Charles Baudelaire, come King, consumava alcol e droghe che minarono gravemente la sua salute fino ad ucciderlo a soli quarantasei anni. Dino Campana e Alda Merini, poeti dall’ineguagliabile talento, furono più volte internati in manicomio e lo stesso Edgar Alan Poe, l’inventore del genere letterario noir, diceva di sé stesso di essere un pazzo. La lista delle psicosi che hanno afflitto grandi artisti è lunghissima: dal disturbo bipolare di Virginia Wolf; alla depressione del pittore russo Chaim Soutine, che lo spingeva a dipingere carcasse di animali squartati, o dello scrittore Ernest Hemingway morto suicida; all’encefalopatia di Goya; alla sindrome schizoide di Edvard Munch; all’epilessia di Van Gogh e perfino al masochismo di Rousseau.
Ma volendo continuare ci sarebbero Michelangelo, Ligabue, Pollock, Emily Dickinson, Wain, Charles Bukowski e tantissimi altri ad avere problemi di ogni sorta; così da far apparire la depressione, la schizofrenia, l’abuso di alcol e droghe e i disturbi del comportamento come indispensabili fonti per le migliori ispirazioni artistiche. Ma, riflettendoci, potrebbe essere vero il contrario, ossia che sia l’arte stessa con la sua difficoltà a garantire un giusto sostentamento al suo autore ad alimentare psicosi più o meno gravi, a favorire il consumo di droghe o alcolici o a far insorgere manie suicide?
Una domanda che potrebbe trovare risposta nelle sole sette poesie vendute da Emily Dickinson in tutta la sua vita, ho dalle stesse parole di Vincent Van Gogh che, malgrado fosse apprezzato dalla critica, fu egli stesso a dire che i suoi dipinti non vendevano; avvalorando che le difficoltà economiche possano avere una chiara responsabilità sulla sanità mentale degli artisti che –per loro natura– tendono a travasare ogni disagio e dolore nelle opere imprigionando la loro arte tra genio e follia.
di Mario Volpe
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