I lanzichenecchi, dal cavallo al treno per Foggia
L’articolo di Elkann, della più sconcertante inutilità e privo di un vero contenuto critico e culturale, ha solo imbrattato una pagina del quotidiano, sottolineando il frustrante sfogo di chi mette a segno un banalissimo autogoal sulla scollatura sociale di certi personaggi nei confronti della realtà e della quotidianità.

di Mario Volpe*
Violenza e crudeltà estrema sono i canoni classici di chi s’accanisce in battaglia contro il nemico e i lanzichenecchi, mercenari tedeschi arruolati nelle legioni del Sacro Romano Impero, erano tra i combattenti più temuti in virtù della loro ferocia.
All’epoca trovarseli sulla propria strada, o peggio sul campo di battaglia, sarebbe stata un’esperienza poco piacevole con l’altissima probabilità di non arrivare al nuovo giorno. Eppure, quei mercenari – a cui oggi si associano espressioni offensive– sono stati reclutati a sostegno di numerose spedizioni che li hanno resi i protagonisti assoluti della storia militare del Rinascimento Europeo.
In virtù di tali ragioni storiche incontrarli –per magia– nel XXI secolo, a più di quattrocento anni di distanza, sarebbe un evento alquanto inusuale, ma trovarseli addirittura come compagni di viaggio in un treno diretto a Foggia, mentre disturbano con schiamazzi e risate un concentratissimo viaggiatore immerso nella lettura, è un innegabile colpo di fortuna.
Un’occasione rara capitata al giornalista Alain Elkan, padre dell’eccentrico e popolare Lapo, che in tal modo (giovani lanzichenecchi), ha definito un gruppo di ragazzi troppo chiassosi imbarcati sul suo stesso vagone, e fastidiosi al punto che il giornalista ha sentito il bisogno impellente di battere a macchina un corposo articolo apparso, in seguito, sulle pagine culturali di La Repubblica.
L’articolo, della più sconcertante inutilità e privo di un vero contenuto critico e culturale, ha solo imbrattato una pagina del quotidiano, sottolineando il frustrante sfogo di chi mette a segno un banalissimo autogoal sulla scollatura sociale di certi personaggi nei confronti della realtà e della quotidianità. Personaggi, come Alain Elkan, avvezzi solo a sterili lamentele da sfoderare tutte le volte che la piazza svia l’attenzione da loro per dissociarsi dalla sudditanza nei confronti di soggetti che vantano parentele con potenti famiglie proprietarie di testate giornalistiche nazionali, banalmente adoperate per il vezzo personale di far circolare qualsiasi offensiva castroneria nei confronti di chi non può mettere in campo un’adeguata contromisura.
E così, mentre si brilla di luce riflessa, si è vittima di un rabbuio della capacità di osservare quegli aspetti della vita che sono realmente degni d’essere raccontati con la maestria del bravo narratore, anziché criticarli con l’incompetente irruenza dell’intolleranza.
Naturalmente, forse per un atto dovuto, il consiglio dei giornalisti e delle giornaliste di La Repubblica si è dissociato dal racconto del loro collega che si è accanito con ridondanza sui suoi giovani compagni di viaggio rei di averlo distolto da un’impegnativa lettura di Marcel Proust.
Lettura che, a unanime giudizio, richiede un intelletto ben allenato che qualcuno ha preteso di sostituire con un cheto ambiente violato dalla garrula vivacità di un gruppetto di giovani e simpatici lanzichenecchi d’Italia.
*Scrittore
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