di Mario Volpe - Scrittore
Fine vita mai. È ciò che tutte le religioni predicano, auspicando la continuità dell’esistenza in altre dimensioni; o è ciò che gli scienziati cercano di ottenere, studiando le peculiarità biologiche di taluni esseri viventi favoriti dalla natura. Tra essi, senza dubbio, lo è la turritopsis nutricula, meglio conosciuta come medusa immortale. Un idrozoo capace di ritornare giovane una volta raggiunta l’età matura, rigenerandosi in un ciclo senza fine. Ma intanto, che le menti umane più brillanti riescano a carpire i segreti di questo animale, i nostri telomeri – ovvero delle piccole porzioni dei cromosomi –si accorciano a ogni nuova duplicazione, segnando così il passaggio del tempo e di conseguenza l’invecchiamento. Una condizione che porta infine, la quasi totalità degli organismi viventi, alla morte.
Eppure, spesso, non è la morte, che esorcizziamo con atti di fede e pratiche religiose, a farci davvero paura, ma lo sono i possibili stati di sofferenza causati da malattie irreversibili o incidenti gravemente invalidanti. L’idea che una vita, un tempo, piena e appagante possa essere stravolta da un destino avverso può essere agghiacciante, al punto da stimolarci a desideri contrari all’istinto naturale della sopravvivenza. Pensieri ricercati e consapevoli per ragionare sull’ipotetica scelta individuale di porre fine volontariamente alla propria esistenza, in caso in cui si perdesse la piena autonomia per malattie e infermità gravi.
Del resto, non è da tutti la determinazione di Paul Alexander, che ha vissuto per settanta anni in un polmone d’acciaio a seguito di una paralisi totale da poliomielite; come non da tutti può essere la scelta consapevole di Dj Fabo, che decise volontariamente di porre fine alle sue sofferenze da cieco e tetraplegico, sottoponendosi alla pratica del suicido assistito in una clinica Svizzera. In Italia, all’epoca, non gli sarebbe stato consentito.
Un argomento delicato, intrecciato tra etica e morale, che specula sulle indicibili condizioni di chi è irrimediabilmente legato all’alimentazione e alla ventilazione forzata, senza alcuna speranza di un’esistenza dignitosa. Vivere come una pianta, rattrappirsi in un letto d’ospedale, magari con un cervello capace di sentire ogni senso della sofferenza ma impossibilitato a esprimerla, è una prospettiva agghiacciante e degna delle peggiori crudeltà raccontate nei film e nei romanzi dell’orrore. Mentre si potrebbe porre definitivamente fine ai tormenti di malattie irrecuperabili lasciandosi guidare da un atto di amore e coraggio: l’eutanasia. Una scelta difficile e controversa che, in alcuni casi, appare la sola alternativa possibile, ma che resta ancora un tabù difficile da affrontare.
Un tabù che a Beppino Englaro costò lunghissime battaglie giudiziarie per ottenere il permesso, nel 2008, di staccare la spina dell’alimentazione forzata di sua figlia Eluana, in coma irreversibile e mantenuta in vita – per ben diciassette anni – solo grazie a macchinari e sondini gastrici.
Una battaglia, quella di papà Englaro, che avrebbe aperto la strada alla legge sul biotestamento, grazie alla quale oggi è possibile disporre per sé il rifiuto all’accanimento terapeutico. Eppure, nel nostro paese, l’eutanasia è ancora illegale pur tollerando la cosiddetta eutanasia passiva, ovvero la graduale interruzione dei supporti vitali – previa autorizzazione del giudice – per liberare il paziente da una dolorosa e intollerabile condizione.
Ma, per la pratica della buona morte (questo è ciò che vuol significare il termine eutanasia), in Italia, non vi è ancora una legge che possa legittimare la richiesta di un soggetto a reclamare un intervento medico diretto a porre fine alla propria vita. Insomma, nel nostro paese, chiedere volontariamente a qualcuno di ucciderci non è consentito. Lo è di contro il suicidio assistito, in cui è lo stesso paziente a dover azionare un dispositivo medico atto a interrompere la sua stessa vita; come fece Dj Fabo, schiacciando con i denti il pulsante che innescò l’iniezione di sostanze letali che finalizzarono il suo intento liberatorio.
Parlare di eutanasia, quindi, equivale ancora ad affrontare un argomento in precario equilibrio tra il concetto di esistenza dignitosa e quello di vita pensata come un dono divino e inalienabile. Un argomento, però, talvolta dibattuto da chi è, fisicamente ed emotivamente, lontano dalle sofferenze e dal dolore di una vita non più vita. Eppure, parlarne pubblicamente aiuta a sensibilizzare sempre più la coscienza collettiva bisognosa di un chiaro apparato normativo in materia, così – a breve – il Parlamento si riunirà per ridiscutere sulle disposizioni di morte volontaria e medicalmente assistita, per cercare di legalizzare – una volta per tutte – la scelta individuale di voler morire.
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